Così nacque l’idea di dare l’alloro “all’illustre poeta e pittore signor Francesco Potenzano, palermitano” il solo, fra quanti nell’isola avessero fin dai tempi remoti composto versi, che, senza poi averne il merito, siasi veduto cinger le tempia con l’alloro.
Nell’adunanza degli Opportuni, la proposta del Barone, caldeggiata anche dal barone di Serravalle fu accolta con grande entusiasmo. Non già che tutti riconoscessero il merito del Potenzano, Silvario, per esempio, ci vedeva un soggetto da commedia; e per tutti gli altri era una novità, una festa mai veduta, che sarebbe riuscita di infinito sollazzo, non solamente per gli accademici, ma ancora per tutta la città.
Una mattina dunque si lesse per tutti i canti di Palermo una bolletta – così dicevano gli avvisi – sulla quale si faceva noto a tutti i cittadini della felice città di Palermo, come qualmente il giorno 21 di marzo, entrando col suo apparato di fiori Primavera, qual figlia prediletta d’Apollo e sorella de le Muse, per volere degli Dei che hanno sommamente in pregio il singolar sapere e le virtù eccelse degli uomini, ecc. ecc. nel Portico del tempio al divo Giuliano dicato, alle ore venti, del sacro Lauro, cura ed amore di Febo, si sarebbero fregiate le onorate tempia dell’illustre poeta signor Francesco Potenzano.
L’annunzio, veramente singolare, levò un gran bisbiglio per la città. I dotti vedevano rinnovati gli antichi onorati costumi; gli indotti, che non si imaginavano per nulla come si potesse laureare un poeta, non facevano che domandar notizie; la curiosità era grande.
Una folla di curiosi se ne stava in permanenza davanti la chiesa di San Giuliano, per veder passare gli apparati che dovevano servire alla festa; e quando la porta si apriva, tutti gli occhi cercavano di penetrare dentro, nel giardino, per veder quello che c’era già di fatto.
Questo giardino di San Giuliano, era circondato da un bel portico, e si dilungava accanto alla chiesa; vi si penetrava da un’ampia porta ornata di belle colonne; e pareva in tutto adatto per la circostanza, cui gli Opportuni avevanlo deputato.
Tutto intorno le pareti interne furono rivestite di tappeti ed arazzi, e qua e là con bei quadri di fiorita verzura; sotto il portico furono disposte le sedie tappezzate di velluto, per gli invitati; da man destra i magistrati, da man sinistra tutti coloro che professavano scienza e poesia; le dame ebbero il loro seggio sotto gli aranci del giardino, che intrecciandosi stendevano una cupola verde e odorosa, sulle teste bionde e brune, superbamente acconciate con veli e piume.
Da un lato, incontro al viale maggiore che spartendo per mezzo il giardino congiungeva un lato del portico all’altro sorgeva il palco, cui si montava per alcuni scalini riccamente tappezzati: su di esso era il seggio d’oro serbato al poeta; e sul seggio si elevava un ampio baldacchino di velluto cremisino con frange d’oro: una cosa veramente reale. Alla destra della sedia c’era un tavolino coperto da un lungo tappeto; e alla sinistra un piccol seggio per il bidello.
Il giorno stabilito, una gran folla si assiepava innanzi alla porta; aprendosi di mano in mano per far largo alle lettighe e alle carrozze che giungevano; custodivano l’ingresso i servi del signor don Geronimo, e un moro di statura gigantesca; quasi per indicare che la poesia è universale e doma anche i barbari. Ma la curiosità del popolino non era tanto di vedere i magnifici abiti degli invitati, quanto di conoscere il Poeta.
Il Poeta, però, non si vedeva...
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