mercoledì 26 febbraio 2025

Luigi Natoli: Si fermò dinanzi alla Porta Carini, stendendo la vista oltre il crocicchio del Capo... Tratto da: Coriolano della Floresta. Seguito a I Beati Paoli


Nulla in quello stradale di circonvallazione era mutato: qua e là si aprivano i fossati, sul cui orlo correva la strada, ombreggiata ogni tanto da platani e da pioppi.
Attraverso le porte vedeva le lunghe strade, e le riconosceva: la strada di S. Zita (via Squarcialupo, ora), poi quella dietro il Coro dell’Olivella (oggi via Gagini), la via Maqueda, la via di Porta Carini.
Dinanzi alla Porta Carini si fermò alquanto, stendendo la vista oltre il crocicchio del Capo, più in giù dove essa scendeva verso S. Cosmo; e pareva che quella vista ridestasse nella sua memoria visioni e immagini fosche.
Poi riprese il cammino.
Dopo un’ora circa, giunse al Convento dei Cappuccini, piccolo, bianco, solitario, in mezzo a sentieri campestri, che si allargavano dinanzi la chiesa, in un piano circondato di alti e grossi alberi fronduti, fra’ quali, sopra uno zoccolo marmoreo, stendeva le braccia una croce di legno.
Entrò nel portico, pieno di tavolette votive, che rappresentavano miracoli operati dalla Vergine Assunta e da S. Francesco d’Assisi, e si pose a sedere un po’ sul muricciolo, aspettando qualche frate.
Ne passò uno, che veniva dalle sepolture sotterranee.
Fra Benedetto lo chiamò e lo pregò di domandare al padre guardiano un ricovero per lui, che veniva da un lungo viaggio.
Fu accolto e ospitato caritatevolmente; e all’ora del desinare ebbe la sua scodella di minestra, il suo pane, un pezzo di carne.
Passò la giornata nel Convento per riposarsi. Pregò coi frati, adempì ai doveri del culto come essi; e verso quattordici ore d’Italia, venne in città per un sua faccenda.
Egli si recò al palazzo reale, dove in alcune stanze erano in quel tempo allogati i tribunali.
Non vi riconobbe nessuno.
Uscieri, algozini, attuari, scrivani, tutta gente nuova.
Anche nella gente che aveva liti non ravvisava alcun volto noto.
Pensò con un sorriso amaro che eran passati cinquanta anni, tempo bastevole per spazzare la generazione fra la quale egli aveva trascorsa la sua giovinezza: e che egli forse era l’ultimo ramo non ancora scomparso.
Nondimeno aspettò un poco nell’anticamera, per vedere passare giudici e avvocati e procuratori, e interrogare i visi più vecchi, come per cercarvi un vestigio del passato.
Nessuno.
Si rincorò, ed entrò nelle stanze ove erano gli archivi criminali.
Al suo entrare, uno scrivano, che stava in piedi dinanzi a un grosso volume facendo delle annotazioni, si voltò, e visto quel frate, dall’aspetto venerando, posò la penna e gli domandò che cosa desiderasse.
- Ecco, – disse fra Benedetto, – ho ricevuto una confessione, che mi obbliga a fare qualche ricerca. Si tratta di un processo, che si svolse molti anni fa; voi, forse, eravate ancora un ragazzo... Rimonta al 1723...
- Caspita! sicuramente che ero un ragazzo!... Che processo?
- Contro un certo don Girolamo Ammirata...
- Ah! il processo dei Beati Paoli?...
Gli occhi del romito ebbero un lampo.
- Non so se sia il processo dei Beati Paoli... Io dico di quello intentato contro don Girolamo Ammirata...
- È tutt’uno. Don Girolamo era il capo di quella setta... Noi chiamiamo il suo processo con quel nome. È uno dei processi rimasti celebri... E la memoria ne è sempre viva, anche perché si dice che i Beati Paoli ci siano ancora...
- Lo credete? – domandò il romito con un visibile trasalir della persona.
- Io non credo niente, non so niente; dico quel che si dice; la verità vera è che nessuno sa dove siano questi Beati Paoli... Ma dunque vossignoria desidera vedere quel processo?
- Se non vi disturba. Vorrei darvi una lettura. Mi metterò in un angolo, senza darvi alcuna soggezione.
- Ma si figuri... Adesso la servirò. Segga lì, in quel tavolino; non verrà a disturbarla nessuno...
Lo scrivano, con la penna d’oca infilata sull’orecchio, trascinò una seggiola dinanzi un armadio spalancato, e montatovi su, cominciò a leggere sul dorso di alcuni grossi volumi legati in pergamena floscia.
- Ecco, – disse, togliendo il volume su cui era scritto l’anno 1723.
E posatolo sul tavolino, con una mano esperta lo spogliò sino a trovare il foglio.
- Ecco, – ripeté, ponendo il registro sotto gli occhi del romito, e indicando col dito, il titolo scritto in alto sopra il foglio.
Il frate non poté padroneggiare un gesto di commozione, nel guardare lo scritto.
Era in latino e diceva che quello era il processo contro don Girolamo Ammirata e complici occulti, rei dell’uccisione di don Antonino Bucolaro.
Il frate cominciò a leggere...




Luigi Natoli: Coriolano della Floresta. Romanzo storico siciliano seguito a I Beati Paoli. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914
Pagine 1387 (due volumi) - Prezzo di copertina € 30,00
Copertine di Niccolò Pizzorno

Il volume è disponibile:
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo)
https://www.ibuonicuginieditori.it/shop-online?ecmAdv=true&page=1&search=coriolano
Su Amazon Prime e tutti gli store online.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102). 

martedì 25 febbraio 2025

Luigi Natoli: L'accademia della Stella. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina. Romanzo storico siciliano.

L'accademia della Stella di cui egli faceva parte, e aspirava ad esser capo, o, come si chiamava, Principe, era una compagnia o congregazione o scuola, o tutto questo insieme, di cento cavalieri, di nobiltà antica e indiscutibile, che face­van professioni d'armi allo scopo di for­nire eccellenti militi nella perpetua guer­ra contro i barbareschi: una specie di or­dine militare – in origine – non dissi­mile nello scopo fondamentale da quello dei cavalieri di S. Giovanni e di S. Stefa­no; ma senza alcun carattere monastico o voto minore; uguale alla Congregazio­ne d'arme, che s'era istituita in Palermo nel secolo XVI. 
Posta sotto la protezione dei Re Ma­gi, aveva assunto come insegna la Stella miracolosa apparsa ai tre re d'Oriente, in­castrandola nella Croce di Malta: d'onde il nome di Accademia della Stella. 
Col volger del tempo, pareva aver di­menticato il suo scopo originario; e non mandava più i suoi cavalieri a dar la cac­cia alle navi mussulmane; ma continuava con uno sfarzo, con una magnificenza tutta spagnola, a dar mostra di sè nella bravura de’ suoi cavalieri nelle grandi occasioni religiose o civili. L'insediamento del nuovo Senato, l'apertura della fiera, la festa dell'Assun­ta, l'arrivo o la partenza del vicerè, la pre­sa di possesso di un nuovo arcivescovo, le feste per la nascita di qualche principe reale, o di qualche matrimonio regio, o dell'incoronazione del re, e in generale tutti i grandi avvenimenti celebrati con pompa ufficiale, erano altrettante occa­sioni, perché i cavalieri della Stella faces­sero la loro sontuosa cavalcata, o cele­brassero una giostra, vaghissima per no­vità di giuochi, d'imprese, di divise, di colpi. 
Non era facile far parte dell'Accade­mia. Oltre che si doveva essere nobili da almeno duecent’anni, il numero dei cavalieri era limitato a cento, e non vi si entrava che per elezione a bossolo, e dopo una serie di informazioni e di formalità per assicurarsi della degnità dell'aspirante: sicché far parte dell'Accademia si teneva a grande onore, e come un segno della nobiltà e della grandezza della casa, e i padri che già ne avevan fatto par­te, sollecitavano che quell'onore si trasmettesse nei figli, stabilendo una specie di successione ereditaria come in una paria.



Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina – Romanzo storico siciliano ambientato a Messina durante la rivoluzione e la carestia che colpì la città dal 1672 al 1679. 
L’opera, è costruita e trascritta dal romanzo originale pubblicata a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia, nel 1908.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 947 – Prezzo di copertina € 26,00
Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime e su tutti gli store online.
In libreria presso:
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Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296

lunedì 24 febbraio 2025

Luigi Natoli: Il palazzo del duca di Melia, don Goffredo Calvello, sorgeva nelle vicinanze della chiesa degli Osservanti, conosciuta col nome di Gancia. Tratto da: Calvello il bastardo, romanzo storico siciliano.

 
Non c’era nessuna via. Bisognava rassegnarsi, e partire. Quanto tempo sarebbe rimasto? non lo sapeva; e questa ignoranza accresceva il suo dispetto, e lo sgomentava col dubbio di una lunga assenza disastrosa. Egli era ben lontano dal supporre a quale intrigo dovesse il suo allontanamento; se avesse potuto sospettarlo, avrebbe forse preso una risoluzione decisiva. Vagando fra queste incertezze, ritornò agli scopi che si era prefissi dal giorno in cui era morta Dorotea; e pensò che non aveva tempo da perdere, per mettere in esecuzione un divisamento da lui fermato nella sua mente fin dal ritorno da Termini. Prese, dunque, la spada e il cappello, e uscì. Venti minuti dopo si presentava al palazzo del duca di Melia, don Goffredo Calvello, che sorgeva nelle vicinanze della chiesa degli Osservanti, conosciuta col nome di Gancia.
Il duca era un bell’uomo che s’avvicinava ai sessanta, ma ancor vegeto e robusto. Era tutto bianco, con gli occhi nerissimi velati di una cotal mestizia, come presaghi del vicino tramonto. Il suo aspetto rivelava l’erede di un’antica stirpe, nella quale il sentimento della grandezza aveva impresso le sue stimmate, senza degenerare in superbia o in vanità. Ciò che rendeva singolare la figura del duca erano le mani, piccole, bianche, lievemente carnose, sulle quali pareva che gli anni non avessero osato di avanzarsi; mani giovanili, che egli curava con raffinata passione, unica vanità che gli era rimasta fra quelle che gli ornarono una giovinezza lieta di avventure galanti.
Stava in quel momento nell’amministrazione col “razionale” esaminando alcune carte di famiglia. Giusto in quei giorni aveva avuto qualche dispiacere per cagione del figlio, Antonino, che, adirato contro il giudice della Gran Corte Civile, don Pietro Ferruccia, che sapeva contrario in una lite, aveva preso per il collo il povero magistrato, minacciando d’accopparlo; donde persecuzioni, spese, un casaldiavolo! Ora ricercava nel suo archivio alcuni documenti per quella stessa lite, quando gli venne annunziato Corrado. Se ne infastidì. 
- Eccellenza, dice che deve parlare con Vostra Eccellenza perché deve partire...
- Come si chiama?
- Don Corrado Maurici...
- Ed è un militare?
- Eccellenza, sì. 
Uscì, un istante dopo, in un salotto, e fece introdurre Corrado, guardandolo con curiosità e trovando il giovane abbastanza simpatico, sebbene un po’ femineo per un militare. 
Corrado era commosso: era andato al palazzo del duca con torbidi propositi; ma al conspetto di quell’uomo, che egli sapea suo padre, una commozione profonda e indefinibile si impossessò di lui, e rimase diritto in mezzo alla sala, col cuore palpitante, contemplando quella nobile figura di vecchio, inconsapevole di trovarsi dinanzi al dramma soave e triste della sua giovinezza...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento, al tempo della rivoluzione francese e della Loggia di Francesco Paolo Di Blasi. 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume è disponibile:
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna in tutta Italia, consegna gratuita a Palermo)
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Disponibile su Amazon Prime, Feltrinelli/Ibs e tutti gli store online. 
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102)

martedì 11 febbraio 2025

Luigi Natoli: Dionigi, l'ambizioso signore che impedì a Cartagine la sua espansione in Sicilia. Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo

Prima sua cura fu di richiamare gli esuli; poi s’intromise a Gela per risolvere le questioni nate fra il popolo e gli aristocratici. Dionigi fatte pubblicare le accuse contro questi, ne condannò a morte i rei, di che il popolo fu lieto. Di ritorno a Siracusa con l’astuzia si fece eleggere solo comandante, e fingendo di essere stato aggredito, ottenne dal popolo una guardia di seicento uomini; poi simulata una congiura contro di lui, mandò a morte alcuni congiurati.
Entrava la primavera dell’anno 405 a. C. e i Cartaginesi, riprendendo la campagna, marciarono su Gela, e accamparono presso il fiume. In suo aiuto accorse Dionigi con trentamila fanti e mille cavalli; ma la vittoria sperata si mutò in sconfitta. I Geloi e con loro anche quelli di Camarina abbandonarono la città, e furono pietosamente accolti in Siracusa. Qui frattanto alcuni aristocratici, che odiavano Dionigi, approfittando dell’assenza di lui, gli saccheggiarono la casa e maltrattarono la moglie, figlia di Ermocrate. Di che egli, tornato da Gela, prese aspra vendetta.
Fatta la pace con Cartagine, rimasero a costei le città vinte: i Geloi e i Camarinesi potevan tornare alle loro sedi, ma tributarii e senza più murare le città: libere e indipendenti Messana, Leontinoi e i popoli siculi; riconosciuta la signoria di Dionigi sopra Siracusa. Questi allora attese a fortificare Ortigia e a costruirvi dentro una cittadella per farne sua rocca; gratificò di terre i suoi mercenari; e rinsaldata la signoria, potè andare all’assedio di Erbessa Pentalica, che voleva punire dell’avere parteggiato pei Cartaginesi. Ma una ribellione scoppiata a Siracusa, l’obbligò a corrervi. Finse di cedere il potere, ma segretamente fece venire una forte schiera di Campani e altri mercenari, che giunsero inaspettati. Pochi nemici suoi gli vollero resistere, e furono uccisi; i più fuggirono: ma Dionigi li invitò a ritornare con animo tranquillo; tuttavia ne fece morire crudelmente alcuni. Indi disarmò violentemente tutti i cittadini; e sicuro di loro, pensò d’allargare il dominio; e più coll’astuzia che colle armi sottomise Erbita, Catana, Nasso e Leontinoi, e fondò Alesa Arconidia. Tappe queste di quella marcia imperialistica, che mirava a unificare tutte le città di greca origine, e anche sicule, sotto il suo scettro. Ma bisognava liberare l’Isola dai Cartaginesi; e poiché base delle operazioni era Siracusa, pensò di fortificarla e specialmente l’Epipoli; e costruì un muro lungo e solido, munito di torri. Intanto rimasto vedovo passò a nuove nozze con due mogli nello stesso giorno, Doride di Locri e Aristomaca di Siracusa.
L’anno 397 a. C., fatta decretare la guerra contro Cartagine, Dionigi con ottantamila fanti, tremila cavalli e con milizie alleate, andò su Motye; e lasciato ivi Leptine suo fratello, egli col grosso dell’esercito andò a sottomettere Nae, Segesta, Entella, Panormo e Solois. Ritornato a Motye, costrinse Imilcone a ritirarsi in Cartagine. Motye, dopo un’eroica e disperata difesa, cadde e fu saccheggiata, e i cittadini massacrati.
Cartagine intanto, armato nuovo e forte esercito e possente flotta, rimandava Imilcone alla riscossa. Navigò per Panormo: Leptine corse con trenta navi a contrastargli il passo; ne affondò cinquanta da carico, poi, temendo il sopraggiungere della flotta più numerosa, si ritirò. Imilcone sbarcò a Panormo, donde mosse per Motye, che ebbe facilmente; ma Dionigi, indovinando le sue mire, si ritirò a Siracusa, invitando la città a collegarsi con lui, contro il nemico comune. Imilcone occupata Lipara piombò su Messana, e tratte dalla sua le città sicule, mosse contro Siracusa per terra, mentre l’armata sotto il comando di Magone procedeva per mare. Dionigi affidò la flotta a Leptine, e moveva coll’esercito a Catana, quando fu costretto a ripiegare su Siracusa, perchè le navi cartaginesi avevano vinto Leptine, e la minacciavano. Imilcone accampò all’Olimpico, devastò campagne, distrusse tombe, occupò l’Acradina, vi saccheggiò il tempio di Demetra e Core. Ma sopraggiungevano in questa trenta navi spartane richieste in aiuto da Dionigi. Queste, con le siracusie, appiccarono una zuffa, nella quale i Cartaginesi perdettero ventiquattro navi e tra esse la capitana. Questa vittoria, alla quale Dionigi fu estraneo, diede coscienza al popolo di potere restaurare il governo democratico, ma l’umanità di Dionigi spense gli umori del popolo; che allora potè rivolgersi interamente alla guerra. Approfittando di una terribile pestilenza, che decimava il campo cartaginese, assalì i loro forti, mentre la sua flotta comandata da Faracide e da Leptine, attaccava furiosamente quella cartaginese. La mischia fu feroce; i Cartaginesi distrutti; Imilcone potè scampare, ma non volendo sopravvivere all’onta, giunto in Cartagine, si uccise. Immenso fu il bottino, ma più l’effetto morale della vittoria, che ancora una volta respingeva l’invasione straniera. 
Più vasto disegno macchinava nella mente Dionigi: quello di soggiogare l’Italia; e si preparava a muovere contro Reggio. Ma per quella volta l’impresa fallì; perchè egli, indugiatosi nell’assedio di Tauromenio (394 a. C.), vi fu ferito, e per poco non restò preso. Inoltre Magone, raccolti gli avanzi dell’esercito, ritentò la fortuna, e devastate le campagne di Messana, si ritirò ad Abacena; ma qui fu sconfitto da Dionigi.
Cartagine però levato un nuovo esercito, e affidatolo a Magone, lo mandò in Sicilia; ma Dionigi con una tattica di piccole fazioni tanto stancò i Cartaginesi, che li obbligò alla pace. Libero così da ogni timore riprese la guerra d’Italia, e sbarcato a Locri, sconfisse un’armata della lega italiota; ma alla sua volta ebbe le navi sconquassate da una tempesta, e dovette riparare a Messana. L’anno dopo s’impadronì della flotta reggina, e pose l’assedio a Caulonia. I collegati, accerchiati e scoraggiati, si resero a Dionigi, che li mandò liberi senza riscatto, ma distrusse Caulonia. Indi stretta d’assedio Reggio, l’ebbe. Oramai la sua egemonia sulle città della Magna Grecia era stabilita, e Dionigi potè spingersi a combattere gli Etruschi, e a fondare colonie sull’Adriatico, come Ancona, e svolgere una politica, che mirava a essere italiana.
Ma Cartagine, volendo conquistare anche una volta il perduto, mandò un altro numeroso esercito, parte nella Magna Grecia, parte in Sicilia (383 a. C.). In una battaglia, i Cartaginesi furono sconfitti, e lo stesso Magone vi perdette la vita; onde essi, non potendo trattare la pace, domandarono una tregua, che l’incauto Dionigi concesse. Quelli ne approfittarono per rafforzarsi; e spirata la tregua, assalirono i Siracusii, e ne ebbero vittoria. In seguito a ciò trattarono la pace con vantaggi per Cartagine. Ma dopo un intervallo di tempo, nel quale Dionigi mandò i suoi eserciti in aiuto di Sparta, la guerra contro la nemica si riaccese con varia fortuna: Dionigi però non potè condurla a fine, perchè fu colto dalla morte a sessantatre anni, dopo trentotto di signoria. Dicono esser morto per intemperanza nel celebrare il premio conferito a una sua tragedia alle feste dionisiache in Atene; chè Dionigi ebbe velleità letterarie, credendo sè, e facendoglielo credere gli adulatori di corte, grande poeta. Ma le sue composizioni suscitavano il riso e le baie degli Ateniesi, e non giunsero a meritare le lodi del poeta Filosseno, che gli viveva in corte. Ebbe ospite Platone, le cui austere parole però lo disgustarono; abbellì Siracusa, e le diede la magnificenza di metropoli.
La storia e la leggenda lo dipinsero crudelissimo, e tale fu spesso; ma ebbe anche gesti di generosità, e sentì profondamente l’amicizia. Nessuno però può negargli il merito d’aver impedito a Cartagine la sua espansione in Sicilia, continuatore in questa impresa di Gelone; d’avere salvato la civiltà e d’avere inoltre inaugurato una politica italica.


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. 
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale, pubblicato dalla casa editrice Ciuni nel 1935.
Pagine 509 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno

Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia - consegna gratuita a Palermo)
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lunedì 10 febbraio 2025

Luigi Natoli: Dalle finestre della Torre Pisana assistevano al duello le donne del Tiraz... Tratto da: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano.

Dalle finestre della Torre Pisana, di dietro le gelosie di legno finamente intagliato assistevano al duello le donne del tiraz e le schiave di palazzo. La più parte erano musulmane di fede, ma non tutte di razza araba; ve ne erano berbere, brune, dai lineamenti regolari, gli occhi grandi, le labbra tumide; i corpi agili e vibranti; ve ne erano sirie, dal volto pallido, grassoccio, molli; arabe simili alla gazzelle delle oasi; greche delle isole, rosee, carnose, dai grandi occhi cilestri e dai capelli biondi, insolenti e cupide; ve ne eran molte delle coste della Dalmazia o dell'Epiro: slave dai capelli neri e copiosi, dai grandi occhi pieni di sogni; ve ne erano di Sicilia, nate da razza indigena, da lungo tempo passate all’islavismo, e confuse per la fede e pei nomi e le costumanze adottate, con gli antichi dominatori; o discendenti da tali venuti d’Oriente col primo conquisto musulmano, naturalizzati in Sicilia; figlie le une e le altre di prigionieri ridotti in schiavitù, o venduti nei mercati. Ve n’eran parecchie “franche” come eran dette in generale quelle di razza latina o germanica, di fede cristiana, predate da legni corsari talvolta nelle stesse spiagge dell’isola e portate in 
Oriente o in Tunisi; o offerte da parenti medesimi
Vivevan tutte nel palazzo regio; quali addette ai servigi della regina, e non era­no le più belle nè le più giovani; quali al tiraz, alle culture cioè dei bachi e alla fabbrica dei drappi serici, comuni o ricamati, di cui la corte aveva quello che oggi si di­rebbe il monopolio. Queste erano le più giovani e le più belle. Le sceglieva il re stesso.
Venivano spesso mercantanti dall’Oriente e da Tunisi a vendere le fanciulle pre­date o vendute dai genitori; il gran Camerario, che amministrava il palazzo regio le esaminava, ne faceva una scelta, e le sottoponeva all'approvazione del re, che trasceglieva quelle che gli facevano mag­gior simpatia. 
Guglielmo era un buon conoscitore di donne: rassomigliava da questo lato al pa­dre, il re Ruggero, che aveva subito il fasci­no della vita voluttuosa dei musulmani, e non contento delle quattro mogli prese suc­cessivamente, s'era fatto un harem, sfidan­do i rimproveri, gli scrupoli e l'orrore del clero
Guglielmo in questo aveva superato il padre, il re Ruggiero di cui aveva subito il fascino in altre qualità dello spirito. Nell'avarizia, per esempio, e nella ferocia dei castighi. Gli restava di gran lunga inferiore nell'attività maravigliosa, nel fine senso politico, nella opportuna e sapiente prudenza e nella magnanimità, quando era necessaria: qualità che avevan fatto di lui il più grande monarca e statista del suo tempo. Guglielmo ama­va troppo la voluttà, per aver tempo di oc­cuparsi dello Stato. Per lui c'era Majone. 
Un vero esercito di eunuchi bianchi e neri gli custodiva quel regno. Ve n’erano grassi, obesi, giallicci, coi capelli lisci sui volti sbarbati e rugosi; ma ve n’erano robusti e fieri. Nessuno poteva varcarne le soglie fuor che il re. La torre posta a una estremità non aveva che un ingresso, giù nella corte, custodito da guardie musulmane: aveva un passaggio interno pel quale dalla Gioaria si poteva entrare nelle stanze delle donne. 
Re Guglielmo faceva in quei giorni allestire un suo castello in un parco, oltre l’Ain Abu Sind, volgarmente detto Ain Sind, sorgente d’acqua, che scaturiva e scaturisce ancora da grotte. Il castello era quasi compiuto, e vi attendevano soltanto i mosaicisti, che ne decoravano bellamente le pareti e il pavimento dell’atrio. Quel castello era serbato ad accogliere l’harem, come in luogo più riposto, lontano dai rumori cittadini, circondato di boschi, rallegrato di palmizi e di laghetti, come quello della Favara, posto all’altra sponda dell’Oreto, o come allora si chiamava del Wadi Ab bas, o come quello di Menani posto a mezza strada fra la città e il villaggio di Baida. Quel nuovo castello doveva vincere gli altri per grandezza e magnificenza di stanze e per bellezza di sito. Guglielmo vi profondeva tesori; e Majone glieli trovava: ma intanto circondava di guardie la torre e la chiudeva agli occhi dei profani, coprendo le finestre di gelosie di legno intagliato delicatamente all’uso di Egitto. 
Durante il giudizio di Dio quello stormo di passere s’erano addossate alle gelosie, arrampicandosi sopra gli sgabelli, sopra i cuscini. Tutti i buchi degli intagli e dei frastagli si animavano di pupille sfolgoranti che seguivano con interesse e curiosità infantile le vicende del duello. Anche fra le donne dell’harem s’erano formate due parti: quella di Silvestro e quella di Orsello: se non che non era la politica che le divideva: ma la simpatia per l’uno o per l’altro.


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo al tempo di Guglielmo I.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, unicamente pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 5 agosto 1911. Raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, consegna gratuita a Palermo)
su Amazon Prime, Feltrinelli/Ibs e tutti gli store online.
In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele n. 423), Centro Cultura Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102)