lunedì 6 ottobre 2025

Luigi Natoli: Amore e morte. Storie e leggende volume 1 Dal 20 ottobre 2025 sarà disponibile il 40° volume della Collana dedicata alle opere dell'autore edita I Buoni Cugini Editori

Con questo primo volume inizia il recupero e la pubblicazione, a opera dei I Buoni Cugini Editori, di tutte le numerosissime “Storie e leggende” scritte da Luigi Natoli sul Giornale di Sicilia con lo pseudonimo di Maurus, a partire dal 12 Febbraio 1889. 
L’intenzione del grande scrittore palermitano era quella di narrare la storia della Sicilia usando l’originale formula del racconto o leggenda storica e nel primo articolo dell’apposita Rubrica, intitolato Preludio, si rivolge a una “dolce signora”, esponendo così il piano dell’opera: 

“…Io vi condurrò nella casa del Saraceno, o nella Torre dei diavoli, dove gli spettri dei Chiaramonte decapitati vengono di notte fra stridori di catena ed urli bestiali... E se un amore vi fa palpitare, io vi mostrerò dove e perché Manfredi Chiaramonte e Francesco Ventimiglia vennero alle armi, e vi condurrò innanzi alla sanguinosa impronta di Caterina La Grua, e vi farò assistere alla morte di Aldonza Santapau e di Pietro Bellopede... Volete storie di briganti? magnanimità del buon tempo di re Artù fra lo scoppio degli odii e le battaglie sanguinose? Spettacoli, torneamenti, rappresentazioni, auto da fè? Ditelo; ed io vi condurrò; e insieme penetreremo e interrogheremo tutte le vie, le case, le chiese; rievocheremo le vecchie leggende, trarremo dal sepolcro paurosi spettri ed ombre eroiche, leggeremo virtù magnanime e sanguinosi misfatti…”

Per ben distinguere i volumi, oltre alla numerazione, diamo ad ognuno il titolo di un racconto compreso nel libro: il primo per l’appunto è “Amore e morte”; in esso il lettore troverà le Storie e leggende pubblicate dal 12 febbraio al 31 dicembre 1889.


Luigi Natoli: Amore e morte. Storie e leggende volume 1.
L'opera è la fedele trascrizione delle Storie e leggende pubblicate in ordine cronologico sul Giornale di Sicilia dal 12 febbraio al 31 dicembre 1889. 
Pagine 386 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal 20 ottobre 2025

martedì 30 settembre 2025

Luigi Natoli: Ed ecco la piccola città di Cefalù... Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie

Ecco sotto una rupe la piccola città di Cefalù, che è anch’essa molto antica, ed aveva un castello formidabile sulla rupe che domina la città, del quale si vedono ancora gli avanzi.
Le due torri, che si levano sulle case, sono i campanili del Duomo, importantissimo pei suoi musaici, che sono forse i più belli di Sicilia. È dedicato al Salvatore.
Narrano le storie che il re Ruggero, nel 1131, navigando, fosse stato sorpreso da una terribile tempesta nel mare di Cefalù, e avesse fatto voto di erigere una chiesa al Salvatore, se fosse scampato. E mantenne il voto, due anni dopo, facendo costruire questa chiesa, che è uno dei più bei monumenti del secolo dodicesimo.
E andiamo avanti. La strada ferrata ora rasenta la costa, ora entra in gallerie: la spiaggia è pittoresca; a destra si spiegano valli, colline e monti che offrono bellissime vedute; e qua e là si vedono paesi mezzo nascosti tra boschi o schierati sui monti. Nei tempi antichi v’erano in queste contrade città fiorenti: ora appena si trovano le rovine di qualcuna di esse.
Passiamo dinanzi a Milazzo, che sorge sopra un promontorio, dominata da un castello che una volta difendeva la città: ora è un monumento. Anticamente essa si chiamava Mile. Nel suo mare il console romano Duilio sconfisse la flotta cartaginese, 260 anni prima dalla nascita di Gesù. Ma il ricordo più vicino e non meno glorioso è il fiero combattimento del 20 luglio 1860, nel quale i Garibaldini sconfissero le truppe borboniche, e si aprirono la via per andare a Messina.


Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato nel 1925 con le Industrie Siciliane Riunite e corredato dalle foto dell'epoca. 
La copertina di Niccolò Pizzorno riproduce esattamente quella originale. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 19,00

Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo, consegna a mezzo corriere o raccomandata postale in tutta Italia)
Su Amazon Prime e tutti gli store online.
In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli) 

Luigi Natoli: Ottobre. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie

Con ottobre siamo in pieno autunno: i giorni vanno accorciando; l’aria si fa più fresca; passano nuvolaglie; cadono le prime acque; i tuoni brontolano. Le foglie degli alberi cominciano a ingiallire: qualcuna, dissecatasi, si stacca dal ramo e cade lenta lenta per terra.
Ma la terra si riveste di verde alle prime piogge: però nei giorni sereni il cielo è di un bell’azzurro; il sole è tiepido, e quando tramonta diffonde sulle cose una luce così vivace, che tutto sembra ardere.
I pettirossi e i verdoni popolano le siepi; i fringuelli lanciano le loro melodie dagli alberi; le cutrettole, così vispe su le zampette esili, saltellano e dan la caccia alle mosche.
Gli alberi producono gli ultimi frutti, quelli che si conservano nell’inverno. È la stagione delle mele rosee e fragranti, delle castagne. Queste piacciono tanto caldarroste, o ballotte, o cotte al forno, o (quando son secche) lesse.
E si maturano le nespole.

Quannu viditi nespuli, chianciti;
chistu è l’ultimu fruttu di la stati.

Ma ottobre è, inoltre, il mese della vendemmia; la vendemmia è la raccolta più festevole dell’anno.
Schiere di uomini e donne, con le forbici o un coltellino in una mano, un paniere o un canestro nell’altra, spiccano i grappoli dalle viti, e cantano alternandosi: il canto si propaga; cantano anche nelle altre vigne; e sembra che tutta la terra canti. Canestri e panieri, quando son pieni, sono da altri uomini versati in corbe, o in bigonce caricate sugli asini, che le trasportano al palmento.
Al tramonto del sole, smesso il lavoro, uomini e donne riprendono a cantare a gara, e intrecciano balletti, spesso al suono della ciaramella e del piffero, o del tamburello. I ragazzi si tingono il musetto col succo dell’uva nera. L’aria odora di mosto, e tutti paiono presi da una certa ebbrezza.
Al palmento vi sono i torchi per pigiar l’uva: il mosto si raccoglie nelle tinozze, e si versa nelle botti. Esso fermenterà e diventerà vino.
Ma in moltissimi paesi di Sicilia non usano ancora i torchi e le altre macchine che si trovano nelle fattorie: si pigia il vino come si faceva anticamente. Uno, due uomini, quanti può contenerne il tino, coi calzoni rimboccati, pestano l’uva coi piedi. Cosa che non è sempre pulita.




Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato nel 1925 con le Industrie Siciliane Riunite e corredato dalle foto dell'epoca. 
La copertina di Niccolò Pizzorno riproduce esattamente quella originale. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 19,00

Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo, consegna a mezzo corriere o raccomandata postale in tutta Italia)
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lunedì 29 settembre 2025

Luigi Natoli: Miracoli e superstizioni del 1600 in Palermo. Tratto da: Palermo al tempo degli spagnoli 1500-1700

Spesso una leggenda sognata o ripullulata nel cervello di un isterico, si tramutava in una miracolosa realtà; come avvenne per quella di S. Oliva. Un’antica leggenda diceva che trovato in Palermo il corpo della vergine, il sangue sarebbe corso a fiumane: “pi santa oliva lu sangu a lavina.” Come fu e come non fu, nel Seicento si sparse la notizia che il corpo della santa si trovava sepolto nella via dove si trovava la chiesa di S. Michele Arcangelo, e precisamente innanzi alla chiesa stessa. E allora si rovesciò l’armata di picconi e di vanghe, e zappa e scava per lungo, per largo, in basso e non trovò che acqua. Ragione per cui il 15 ottobre del 1606 il cardinale Doria minacciò la scomunica a chi, sapendolo, occultasse o nascondesse dove era il corpo di S. Oliva. 
Che dire dei miracoli? Quanti ne fece S. Francesco Borgia in un attimo, non li hanno fatti cento nel corso della loro vita. 
Ma uno spettacolo più stupendo ci tramanda Vincenzo Auria, che lo vide con gli occhi suoi. Nell’inondazione del 1668, tra l’infuriare della piena che trascinava tutto quanto trovava rovinando, vide una statuetta di S. Rosalia alta un palmo procedere dritta senza deviare o traballare o ondeggiare; segno evidente – dice l’Auria – che la vergine romita proteggeva la città!
Il 22 gennaro del 1689 vi fu una tempesta di tuoni che mai s’era sentita simile; e dopo acque da non si credere, tanto da allagare le vie e far ricordare le inondazioni del 1557 e del 1667. E dice l’Auria che (e seguo le sue parole) “assalita all’improvviso la Città della giusta ira di Dio, si diè mano al suono delle Campane, implorando da Dio clemenza onde tutto il popolo... piangeva le sue colpe per mitigare lo sdegno di Dio, ed ottenere perdono.”
Altro miracolo. Nel processo per beatificare il padre Girolamo di Palermo, si narra che avendo il padre Firmatura baciata la mano di lui morto, si sentì stringere in modo affettuoso. 
Contro il vento non c’era rimedio che il suono delle campane delle chiese: le campane erano benedette, e il vento era prodotto dai diavoli dell’aria, e come si sa ce n’erano dovunque: nei pozzi, in casa, nei boschi, ecc. E con le campane, sonando a distesa, si era sicuri che il vento cessasse.  Il 15 luglio del 1609 il cardinale Doria ordinò il suono delle campane contro il vento, ed io ricordo che ragazzo vidi scongiurare il vento dalle monache di S. Chiara in Termini Imerese, tanto la superstizione s’era abbarbicata. 
E le locuste o cavallette? Nel 1607 esse infestarono le campagne di Palermo e il Senato dedicò un altare a S. Trifonio nella Cattedrale perché protettore contro le locuste: ma S. Trifonio fu impotente, e le locuste seguitarono a rosicchiare, finchè non si ricorse agli esorcismi. Così ancora nel 1688, quando monsignor Bazzan, dopo aver invocato invano S. Rosalia, S. Agata, S. Oliva, S. Ninfa, eresse un altare fuori Porta Nuova e le scomunicò. 
La scomunica si faceva in questo modo sia in questa occasione sia in altra: il prete delegato dall’Arcivescovo andava in cotta e stola nera, a cavallo d’una mula fuori Porta Nuova o altrove con quattro diaconi anch’essi a cavallo di mule, con torce di cera nera e lì pronunciava la formula della maledizione in latino. Le locuste non se ne davano per intese, manco a dirlo, forse perché non conoscevano il latino. 
Vorrei parlare delle numerose superstizioni che vigevano allora se non fosse che ancora viggono, e non solo in Palermo, ma tra i popoli più inciviliti, come sarebbero il sale sparso, lo specchio che si rompe, l’olio che si spande; mi basta segnare due in uno in Palermo le candele di una forma speciale che si accendevano al “Santo Padre” per aiutare la donna sul parto e le fave benedette da lui che servivano allo stesso scopo. Il “Santo Padre” era da noi S. Francesco di Paola. 
E le fattucchiere? Ci saranno sempre ora come allora, e invano gli arcivescovi come il Doria fulminavano bandi per estirparle, non già perché erano un errore e un orrore, ma perché erano suggerite dal demonio, e inducevano le anime a perdersi. Esse si involavano, sia per fare ritornare l’amore in chi era diventato avverso coi filtri o con gusci d’ova bucherati da spilli, sia con scongiuri; e rivaleggiavano coi medici. Nel 1613 al 30 di Marzo il cardinal Doria fece frustare sette donne e un uomo con le mitre in capo come “magari” ossia fattucchiere. 
Questa la racconta il padre Aquilera, nella sua Storia dei Padri di Gesù ed è la storia di Zambrì. Chi era Zambrì? Uno spirito familiare che non faceva nulla di male, ma che governava due fanciulli amorosamente. Potevano lasciarlo stare, ma il padre gesuita se lo ebbe a male perché era uno spirito diabolico, e lo esorcizzò. Zambrì sparve. E meno male che si trattava di uno spirito o di persona così e così. Ma ci fu un personaggio altolocato che credette agli spiriti. Di fronte a certi fenomeni creduti strani, avvenuti in una certa casa, nel 1586 il marchese di Geraci, allora Presidente del Regno, proibì con un bando di andare ad abitare in quella casa, perché c’erano le “donzelle” che erano anch’esse spiriti diabolici! 
Ma eleviamoci ancora un poco: si tratta della chiesa e della consagrazione dell’Altare Maggiore della Cattedrale. In quell’occasione l’arcivescovo Aedo, nel 1604 “nella busciola se li posero l’infrascritte reliquie, cioè del legno della Santa Croce, delli capelli della Madre di Dio, dell’ossa di Santa Lucia Martire, di San Senatore, di San Viaturi (?) di San Cassaturi (?), di San Nicasio, di San Pelice, di Sant’Agata e di Santa Cristina patroni.” 
Senza ridere. 


Luigi Natoli: Palermo al tempo degli spagnoli 1500-1700. 
L'opera, pubblicata per la prima ed unica volta ad opera de I Buoni Cugini Editori, è la fedele trascrizione del manoscritto dell'autore. 
Pagine 292 - Prezzo di copertina € 20,00
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su Amazon Prime e in tutti gli store online.
In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli) 

martedì 23 settembre 2025

Luigi Natoli: Il castello aveva nome di San Nicola... Tratto da: Coriolano della Floresta. Romanzo storico siciliano.

Quando era una fanciulla di diciotto anni, abitava in un grazioso castello, su la riva del mare poco oltre il feudo di Milicia. A le spalle del castello si alzava a balzi la montagna; ai lati poche catapecchie di pescatori, e poi di qua e di là le rive incantevoli dell’ampio golfo di Termini, ora sabbiose, ora irte di rupi.
Il castello aveva nome di S. Nicola.
Terre non ne aveva fuor che un piccolo bosco fra le balze, possedeva però un tratto di mare, dove, alla stagione adatta, si faceva la mattanza dei tonni.
Il castello era formato di una cortina quadrata; difesa da qualche opera interna agli angoli, e di un’alta torre cilindrica, merlata; che dominava la campagna e la marina.
Gli appartamenti non erano vasti.
Fuori del castello v’era una cappelletta dedicata a S. Nicola, donde forse aveva preso nome.
Il castello apparteneva allora ai principi di Cattolica, che l’avevano ereditato dai Crispo: ma nel 1748, per concessione del principe, vi abitava un nobile cavaliere, don Antonio di Casalgiordano, con la sua unica figlia, Virginia.
Era un uomo taciturno e severo, ma aveva una adorazione per la figlia: adorazione tuttavia, che non lasciava trasparire dall’aspetto.
Virginia non aveva conosciuto sua madre, della sua infanzia non ricordava nulla. Ancora bambina era stata posta in un monastero a Messina; a sedici anni il padre che ella vedeva in parlatorio tutte le domeniche, l’aveva ritirata e condotta in quel castello, dove essi vivevano come in un eremitaggio.
Pareva che don Antonio di Casalgiordano fosse geloso di quella sua figlia bella e modesta.
Di quando in quando però egli per gli affari del suo patrimonio si assentava due o tre giorni. Durante la sua assenza il castello era rigorosamente custodito, oltreché dai servi, da due terribili molossi, che non lasciavano avvicinare alcuno.
Era la consegna data alla servitù: per tutt’altro essa doveva ubbidire ciecamente alla fanciulla.
Ma Virginia non faceva pesare il suo governo.
Ella era buona e umana; e aveva anche ammansato e assoggettato con la dolcezza delle sue maniere, ma con la fermezza della sua volontà, i due molossi stessi.
Un pomeriggio tempestoso, in cui il mare, livido e sconvolto, pareva volesse scalzare gli scogli, e minacciava il piccolo villaggio, don Antonio e Virginia se ne stavano affacciati a una finestra, guardando lo spaventevole e stupendo spettacolo.
Tra i flutti, non molto lungi dalla terra, una tartana si dibatteva disperatamente.
Aveva l’albero spezzato. Gli otto uomini che la montavano, aggrappati ai banchi, per non farsi portare via dai marosi, facevano sforzi perché la fragile nave non si capovolgesse.
La furia del mare, le aveva fatto perdere la rotta, e la spingeva verso terra, ma l’equipaggio temeva di andare a picco fra le scogliere, e avrebbe almeno voluto dirizzarsi dove la spiaggia era sabbiosa.
La lotta di quegli uomini contro gli impeti del mare aveva qualcosa di grandioso nella sua tragicità. Essi non parevano atterriti dalla fierissima tempesta; forse la grandezza e l’imminenza del pericolo dava loro quella padronanza di governare la nave in una lotta disuguale.
Ma Virginia tremava; e a ogni sparire della nave sussultava e mandava un grido.
La nave infatti pareva a ogni nuova furia di cavalloni che ne fosse inghiottita; ma riappariva subito dopo sulle creste spumose, per ridiscendere e sparire un’altra volta...




Luigi Natoli: Coriolano della Floresta. Seguito a I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato per la prima volta in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1914. Per la lunghezza, è stato diviso in due volumi.
Copertine di Niccolò Pizzorno. Prezzo di copertina € 30,00
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli) 

Luigi Natoli, Giuseppe Pitrè: Spiritoso quel ‘Nòfriu! Tratto da: Il teatro del popolino. Raccolta di scritti sull'Opera dei Pupi e sulle tradizioni cavalleresche in Sicilia

Agli appassionati dell’opra tutto riesce serio e grave, anche ciò che è addirittura una parodia. Ma gli imprudenti non mancano neppure all’opra; e quando un aneddoto, una scena supera i limiti del verisimile o del credibile, qualche esclamazione della platea suona rimprovero al personaggio che parla e per esso a chi dietro le quinte parla per lui. Se la voce della platea è un’accusa alla verità storica del racconto, il personaggio stesso o il buffo del teatro, ‘Nòfriu, fatto venir subito subito sul palcoscenico, rimbecca l’imprudente esponendolo al ridicolo. Tra attore e spettatore impegnasi talvolta un battibecco abbastanza comico per l’uditorio, tutto a scapito di chi ebbe la malinconia d’interrompere la diceria o la rappresentazione, nel qual battibecco i motteggi pepati, anche sboccati di ‘Nòfriu, forte della storia e del suo carattere, riducono al silenzio l’interlocutore, fatto altrimenti tacere dalla disapprovazione pubblica.
Spiritoso quel ‘Nòfriu!
A rallegrare la scena egli viene fuori ora a combattere contro un gigante, in faccia al quale trema come una foglia, ora a far da becchino dopo una terribile strage, ora a dar la burletta a un soldato di guardia, o a qualche persona del criminale, e sempre che giovi interrompere la monotona serietà dei fatti che si svolgono. ‘Nòfriu rappresenta il bell’umore del popolino, di cui prende anche il vestire: berretto (scarzetta), giacchetta, panciotto. In siciliano scherza, chiacchiera, si bisticcia; alla siciliana gesticola e schiamazza; da buon siciliano si rappacia; è scaltro, sospettoso, diffidente, non si lascia di leggieri cogliere in trappola, e l’accocca a chi presume accoccarla a lui. Non parla, non si muove per poco che non esca in lazzi, in frasi, in gesti ridicoli, in motti ed arguzie nate specialmente dallo stroppiamento delle parole. Che se poi sconfina motteggiando, e qualcuno dell’uditorio lo disapprova con un certo suono inarticolato delle labbra, ‘Nòfriu ricorda alla sua maniera il galateo rincarando la dose. Una sera nell’opra di Catania che è rimpetto l’Università, Orlando esce in un vantamento di questa fatta: Con un corpo (colpo) della mia spata fazzo (faccio) sartare la testa a cento paladini. Qui un facchino dell’uditorio imita con la bocca quel tal suono inarticolato, e ‘Nòfriu, lì presente, lo apostrofa: Figghiu di scarana! Lèggiti ‘a storia si non ci cridi! ed il facchino, beffato dal pubblico, rimane scornato. Scene come questa accadono allo spesso, e, se non per gli espedienti di ‘Nòfriu, si troncano per opera di un uomo che, come gli antichi pedagoghi, sta lì con una piccola sferza in mano a mantenere l’ordine meglio d’un questurino, battendola, secondo i casi, sur una panca o trave, o sulla spalla d’un monello ineducato. Ed è notevole questo: che nessuno reagisce o si querela di questo trattamento, mentre fuori il teatro il custode verrebbe altrimenti caricato d’ingiurie e peggio. Ma all’opra bisogna abbozzare e striderci sopra.
Qualche oprante amico della novità ha messo da parte ‘Nòfriu e preso Peppi-e-Ninu, altra maschera che, sott’altro nome, riproduce, senza che ne scatti un pelo, ‘Nòfriu; ma i buongustai e gli amici del passato non ponno lodare questa sostituzione ingrata verso un carattere che per secoli li ha fatti ridere e divertire. Al Peppi-e-Ninu s’è anche sostituito Virticchiu, che è sempre l’erede legittimo di ‘Nòfriu; ma consolati, o buon ‘Nòfriu, chè sei sempre tu l’antico genio burlesco dell’opra; e tutti i Peppi-e-Nini e tutti Virticchi nati e nascituri spariranno di fronte alla tua sicilianesca figura!
(Nella foto, da destra: ‘Nòfriu, una dama e Virticchio, opera del maestro Vincenzo Argento. Teatro dei Pupi famiglia Argento, Via P. Novelli 1/a, Palermo) 


Luigi Natoli, Giuseppe Pitrè: Il teatro del popolino. Raccolta di scritti sull'Opera dei Pupi e sulle tradizioni cavalleresche in Sicilia. 
Pagine 270 - Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
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Luigi Natoli, Giuseppe Pitrè: Orlando paladino! Facciamogli largo perchè la sua spada Durlindana è terribile... Tratto da: Il teatro del popolino.


Orlando paladino! Facciamogli largo, perchè la sua spada Durlindana è terribile: spacca una montagna in due, come se fosse un cocomero. È il terrore dei Saraceni, dei ladroni, dei birbanti; perchè è saggio quanto valoroso, ama la giustizia, e non può tollerare le prepotenze. Senza Orlando, Carlo Magno imperatore non varrebbe un fico secco; i Saraceni si piglierebbero Parigi, e quel traditore di Gano di Magonza farebbe morire tutto il fiore dei paladini. 
Bello Orlando, non è vero? con la sua armatura di ottone nichelato, che pare argento; elmo piumato, con la visiera mobile; corazza, sopravveste verde, gambali, scudo... Ha un occhio storto, ma non monta. Eccolo piantato in mezzo al campo, e sfidare, con un vocione da mettere paura, i Saraceni; ecco avanzarsi Ferraù di Spagna, gigantesco, barbuto e valoroso Saraceno. Ed eccoli l’uno e l’altro scambiarsi male parole, sguainare le spade, e menar colpi terribili, zan! zan!... E l’organino suona qualche cosa che accompagna il ritmo dei colpi.
L’organino? Ah, guarda, eravamo così assorti ad ammirare Orlando che avevamo dimenticato di dire che il terribile paladino non è un uomo d’ossa e di carne, ma un omino di legno; e che il campo, sul quale compie le sue prodezze, è il palcoscenico di un teatrino; il teatrino del popolo, l’opra di Pupi, o semplicemente l’Opra. 
I ragazzi del popolo, i monelli di piazza, i contadinelli, che non possono andare nei grandi teatri, dove si cantano le opere e dove bravi attori recitano commedie e drammi, accorrono all’Opra, dove gli attori di legno recitano come quelli di carne. Ed essi li conoscono tutti di nome e di qualità: Carlo Magno, Orlando, Rinaldo, Malagigi, Oliveri, Bradamante, Ruggero, Ferraù, il vecchio Sobrino, il re Gradasso... 
E quando Orlando punisce un birbone, applaudiscono furiosamente; e quando un traditore ne trama qualcuna, essi lo vituperano e gridano alle vittime designate dai traditori, di guardarsi, come se quelle teste di legno potessero veramente sentirli. 
Essi amano i valorosi, ma non i prepotenti; amano la lealtà, ma odiano gli ipocriti; amano i generosi, ma vituperano i crudeli e bestiali. 
Le belle azioni, i nobili sentimenti, le virtù umane ci commuovono e ci empiono di entusiasmo, anche se i personaggi sono di legno...
(Nella foto: il paladino Orlando, realizzato dal maestro Vincenzo Argento - Teatro Opera dei Pupi famiglia Argento, via Pietro Novelli 1/a, Palermo) 



Luigi Natoli, Giuseppe Pitrè: Il teatro del popolino. Raccolta di scritti sull'Opera dei Pupi e sulle tradizioni cavalleresche in Sicilia. 
Pagine 270 - Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
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lunedì 14 luglio 2025

Luigi Natoli: Santa Rosalia fu dichiarata patrona della città di Palermo... Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano

Narrano gli scrittori di storie religiose, che alla corte del re di Sicilia, Gugliemo il Buono, c’era un cavaliere, parente del re, di nome Sinibaldo, signore del monte Quisquina; il quale aveva una figlia, giovinetta bellissima, che si chiamava Rosalia, virtuosa e tutta data alla preghiera.
Ora molti la domandavano in isposa, ma essa si rifiutava, perché voleva consacrarsi a Dio; e per sottrarsi alle nozze, fuggì di casa. Pellegrinando, andò a ricoverarsi in certe grotte del monte Quisquina, dove visse, cinta di rozzo saio, nutrendosi di erbe e bevendo acqua fresca con una ciotola. Così passava i giorni in penitenze e in preghiere.
Dal monte Quisquina, a piedi, valicando aspre montagne, venne verso Palermo: arrampicatasi sul monte Pellegrino, vi trovò una grotta, e ne fece la sua abitazione.
Ivi trascorse il resto della vita; ivi morì ignorata: ma poi la fama del suo pellegrinaggio si sparse; e sul monte Pellegrino fu eretta una piccola chiesa in suo onore. Se non che, non si sapeva dove fosse sepolta, per quante ricerche si facessero.
Nel 1624 Palermo fu afflitta da una fiera pestilenza: la gente moriva a centinaia, e non valevano rimedi di medici, nè preghiere e penitenze ad arrestarla. A chi ricorrere?
Quand’ecco un giorno un cacciatore si presenta all’arcivescovo, e gli dice di aver veduto santa Rosalia, che gli aveva indicato il punto preciso dove erano le sue ossa; e lo aveva incaricato di farle togliere e trasportare in Palermo.
E allora vanno sulla montagna; trovano la grotta, scavano, e proprio nel punto indicato trovano le ossa. Era il 15 di luglio. Subito le mettono in un’urna, le portano in processione per tutta la città, e le depositano nel Duomo, dove poi fanno alla Santa un’arca d’argento, che è una bellezza.
La peste indi a poco cessò; santa Rosalia fu dichiarata patrona della città di Palermo; e ogni anno in luglio si celebrano grandi feste, che una volta duravano dall’11 al 15 luglio, poi si restrinsero a tre giorni. Si chiamavano il Festino; e un tempo erano così magnifiche e famose, che da ogni parte accorreva gente in Palermo, per ammirarle.


Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie.
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato da Industrie Riunite Editoriali siciliane nel 1925 e corredata dalle immagini originali.
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 18,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Consegna gratuita per chi ordina da Palermo. Selezionare dal menu a tendina del carrello il codice postale 90100. Consegna a mezzo corriere o raccomandata postale in tutta Italia. Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.itTutti i volumi sono disponibili Amazon Prime e Feltrinelli/Ibs.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli)

Luigi Natoli: Il Festino nella Palermo di fine settecento. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

Corrado intanto gironzolava per tutti quei vicoli a lui noti, guardando con infantile compiacimento la luminaria in onore della “Santuzza”. Centinaia di lampioncini di carta colorata, penduli da festoni di verdi fronde distesi pel largo dei vicoli, un dopo l’altro formavano, visti da lontano, come dei soffitti luminosi. Sui muri delle case imbiancate di fresco ignoti pittori avevano dipinto in rosso e turchino delle colonne e dei vasi mostruosi con dei fiori inverosimili; e dei chiodi appaiati infissi lungo il contorno reggevano piccole lampadine di terra cotta, che spandevano intorno con la luce rossastra il sito dell’olio da ardere. Ogni edicola di santi era illuminata con candele di cera, e ornata di parati di carta; qua e là una tavola era stata trasformata in altare, coperta di un pezzo di stoffa rossa, e di una tovaglia, e su fra candele e mazzi di fiori freschi che tramandavano l’acuto odore della gaggia e del gelsomino, un quadro rappresentante Santa Rosalia, coronata di rose, col rocchetto di pellegrina e il crocifisso e il teschio in mano; ovvero un gruppo di cartapesta raffigurante Santa Rosalia e il “saponaro” vestito da cacciatore, inginocchiato ai piedi della “Santuzza”. Qua e là dinanzi le bettole, dinanzi le case, lunghe tavole e banchi, e boccali e bicchieri, e vino scintillante nei bicchieri, sparso sulle tavole, fragrante e spumoso; e piatti nei quali nuotavano nella salsa di pomodoro galletti o chiocciole; e montagne di mandorle, ancora chiuse nel mallo verde; e polpi bolliti, dai lunghi tentacoli bruni; e da ogni parte una folla che mangiava, beveva, cantava, annegava nella baldoria le tristezze della vita e della povertà; dimenticando anche che per quell’ora di gioia aveva portato la roba al Monte di Pietà. Ma bisognava onorare la “Santa”. La “Santa” per eccellenza è la gentile e poetica romita del monte Ercta, o Pellegrino; la figlia di Sinibaldo, discendente di Carlo Magno, nel cui nome si confondono i nomi della bellezza e del candore: Rosa et lilia, rose e gigli; la taumaturga che proteggeva la sua città natale dai più tremendi flagelli: fame, peste, terremoto e fuoco.
La stessa luminaria più ricca era nelle strade che quell’anno avrebbe percorso la processione dell’urna argentea contenente le miracolose reliquie della vergine romita. Uscendo sul Cassaro o Toledo, lo spettacolo era veramente maraviglioso, e quale nessuna immaginazione potrebbe raffigurare. Le due strade Toledo e Nuova, erano due torrenti di fuoco, due incendii. Per tutta la loro lunghezza eran fiancheggiate da assi di legno intagliate e dipinte maestrevolmente a forma di colonne con vasi, di pilastri, obelischi, statue; dette con unico nome “piramidi”; sulle quali si innalzavano archi di trionfo; e piramidi e archi tempestati di lampadine che seguivano, commentavano, brillavano il disegno, diffondendo intorno una luce viva e uguale. Ai balconi delle case lampioni, candele, lampadari, candelabri; e giù per le strade una folla straordinaria lieta, contenta, ma tranquilla, composta, senza nessuna di quelle clamorose dimostrazioni di gioia che son proprie dei popoli meridionali. Si udivano chiaramente le voci dei venditori ambulanti di semi di zucca e fave tostate, di chiocciole, di acqua e fumetto, biscotti e leccornie. Si aspettava la discesa del “Carro”, il famoso carro trionfale, che era la maraviglia delle maraviglie. Ed esso si vedeva da lontano, torreggiante sulla strada, tremolante nel suo lento avanzarsi, tutto splendente di lumi e di ori e di fiori. Aveva la forma di una barca, su quattro ruote, tirata da cinquanta mule bardate e montate da palafrenieri vestiti alla spagnuola; sulla nave si ergeva una specie di tempietto di stile corinzio, coronato di nubi, circondato di angeli nudi, e su, in alto, così in alto da oltrepassar quasi i tetti dei palazzi, si librava, come in atto di spiccare il volo pel cielo, il simulacro della vergine romita, con le vesti svolazzanti. Giù nei gradini del tempietto i musici sonavano a perdifiato: a ogni fermata del carro si cantava la frottola, specie di lauda in onore della vergine, che veniva composta ogni anno da un poeta ufficiale.
Per tre giorni di seguito il carro attraversava la città. Saliva nel pomeriggio del primo giorno del Festino, l’11 di luglio, da Porta Felice e si fermava al piano del palazzo reale. Ridiscendeva la sera dopo, tutto illuminato, ed era lo spettacolo più grandioso della festa, dopo il vespro solenne nel Duomo; certo il più attraente e caratteristico. Le altre parti della festa, come le corse dei berberi, lo sparo dei fuochi artificiali, la processione, il trasporto delle “bare” e dei “cilii”, eran sì splendide e magnifiche, ma non avevano quella grandiosità inesprimibile del Carro, e dell’illuminazione del Duomo. Eran tre anni che Corrado non vedeva quelle feste così caratteristiche della sua città; e per quanto i suoi nuovi sentimenti gli facessero rimpiangere con certo dolore il folle sciupìo di tante migliaia di scudi, quando la miseria, l’ignoranza, l’abbrutimento asservivano la popolazione, pure non sapeva frenare le dolci commozioni che quegli spettacoli suscitavano nel suo cuore, col destarvi le memorie della sua fanciullezza e la dolcezza amara dei dolori che avevano annebbiata la sua gioventù.



Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880. Prezzo di copertina € 25,00
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martedì 8 luglio 2025

Luigi Natoli: Quel Festino del 15 luglio del 1820. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

La sera del 15 luglio 1820, la via Toledo sfolgorava di luce, formicolava di gente. Era l’ultimo giorno di quel famoso “Festino” di Santa Rosalia, padrona di Palermo; che per la singolarità degli apparati, per la magnificenza degli spettacoli chiamava a Palermo una folla di isolani e stranieri. 
Quella sera la luminaria fiammeggiava più delle sere precedenti. Pareva che le lampadine infisse lungo i contorni e i disegni delle “piramidi” avessero una specie di allegrezza luminosa. Le “piramidi” erano assi di legno, ritagliate a foggia di colonne, con vasi, od obelischi, e dipinte a colori, che si piantavan diritte lungo i marciapiedi, per tutta la lunghezza della strada, pieni di lampadine a olio. Con esse, con le lampade colorate pensole dai festoni, distesi pel largo della strada, o attaccate alle ringhiere dei balconi, la via Toledo prendeva un aspetto fantastico: vista da una delle estremità, sembrava sommersa nel fuoco. In fondo alla via, sul limite della piazza Marina, torreggiava in un nembo di luce e d’oro il “Carro”, sul quale tra nuvole di bambagia spiccava il simulacro di Santa Rosalia.
Quella sera la folla era maggiore, e aveva un aspetto più gaio. Negli occhi, nei gesti, v’era come il riverbero di una gioia, che non si sa né si può nascondere: v’era una irrequietezza, come di chi aspetti una letizia, che sa, e che tarda a venire. Gente si fermava, barattava saluti e parole, con vivacità di tono e di gesti: i più espansivi si abbracciavano. Qua e là si formavan crocchi e capannelli; che si allargavano e ostruivano il passaggio: ma ecco una fiumana d’altra gente fender la folla, urtare, scomporre il crocchio, trascinarne parte con sé.
Curiose fiumane di giovani e vecchi, di frati e preti, di cittadini e di soldati, a braccetto, o tenendosi per mano, affratellati da un sentimento di gioia, che traluceva dai volti, canticchiando e battendo il passo, avevano sul petto, sulle risvolte delle vesti, sulla tonaca una coccarda nera rossa e turchina: alcuni vi avevano aggiunto un nastro giallo con l’aquila siciliana stampata in nero.
Tutta la via Toledo formicolava di queste fiumane, che si raggiungevano, si fondevano, formavano una massa rumorosa, mobile; che scendeva giù, verso la piazza Marina, si fermava dinanzi al “Carro”; guardava in su, l’immagine della “Santa” librata fra le nubi, sulla cui veste candida e luminosa svolazzava un nastro nero, azzurro e rosso. E allora gridavano:
- Viva Santa Rosalia!
Una voce aggiunse:
- Viva la Costituzione!
Parve il razzo aspettato per dar fuoco alle polveri. Da tutte le bocche proruppe quel grido: - Viva la Costituzione! –; e così terribile che ne tremarono i vetri delle case vicine; migliaia di mani sventolarono in aria cappelli e fazzoletti: il grido si propagò, risalì per la via Toledo, più alto, più entusiastico: la città trasaliva, scossa da quell’irrompere di un sentimento lungamente represso; e pareva che i suoi polmoni si allargassero, come bevendo un’aria nuova e più pura. Il giorno innanzi, 14, con la feluca di padron Catalano era arrivata da Napoli la grande notizia della rivoluzione, e aveva prodotto un senso di lieto stupore, destando liete speranze. Rivoluzione? Proprio? Se ne domandavano i particolari, che passando di bocca in bocca s’ingrandivano, prendendo proporzioni e atteggiamenti eroici. I nomi dei due ufficiali Morelli e Silvati, che la notte di S. Tebaldo, alla testa di uno squadrone di cavalleria, avevano gridato, a Nola, la costituzione di Spagna, furono circonfusi di gloria, con quelli del colonnello De Concillis e del prete Minichini. Tutti carbonari! La loro marcia su Avellino, la sollevazione di quel presidio, la formazione di un corpo d’esercito costituzionale che si trascinava dietro il popolo: la rapidità con la quale la rivoluzione si diffondeva, sembravan miracoli. E il re? Quel traditore di re Ferdinando? Aveva cominciato dallo spedire il generale Guglielmo Pepe contro i costituzionali; senza sapere che Pepe era carbonaro anche lui! Ed ecco Pepe alla testa dei costituzionali entrare in Napoli, e il re concedere e giurare la costituzione! Una rivoluzione compiuta senza spargimento di sangue! Non aveva finito di parlare che dalla strada salì un grido confuso, come di un impeto di vento che s’avvicini e cresca di forza, rotto e dominato con frequenza di raffiche di applausi ed evviva. Tullio disse allora:
- La dimostrazione! Venite!
Si affacciò al balcone, tirandosi dietro la fidanzata, la suocera, e lo stesso signor Anselmo curioso, ma pavido. Uno spettacolo magnifico si offerse ai loro occhi. Dalla strada Toledo veniva un vero esercito di sotto-ufficiali, e soldati e cittadini a braccetto, con la coccarda tricolore sul vestito. Venivano preceduti da un ufficiale, gridando:
- Viva la Sicilia! Viva la costituzione! Viva l’indipendenza!
Al loro passare le confratie, e le corporazioni artigiane che si recavano al Duomo per prendere parte alla processione di Santa Rosalia, sollevavano ed agitavano gli stendardi, i gonfaloni; e dalle finestre, dai balconi, dai marciapiedi, la folla univa il suo grido a quello dei dimostranti; le donne sventolavano i fazzoletti, gli uomini battevano le mani e agitavano i cappelli; tutti accesi dallo stesso entusiasmo. Ordinato, solenne, grandioso, fra lo scintillare delle lampade e dei lampioni, il corteo procedeva verso il palazzo reale. Pareva celebrasse il trionfo dopo una lunga guerra, e assaporasse i frutti di una vittoria tanto più grande e strepitosa, quanto improvvisa. Nessuno dubitava che la Sicilia riavesse il suo parlamento, da parecchi anni soppresso con la frode; e che le nuove libertà darebbero al regno novello splendore.
Quando la dimostrazione passò sotto il balcone del signor Anselmo, Rosalia e la mamma, trasportate dall’entusiasmo generale, si misero a sventolare anch’esse i fazzoletti, con gli occhi umidi di commozione e Tullio si diede a gridare:
- Viva l’indipendenza!
La testa del corteo aveva appena oltrepassato i Quattro Canti quando improvvisamente si arrestava; e quel movimento ripercosso nella fila di dietro produsse un ondeggiamento, un rigurgito improvviso, grida di minaccia e di spavento di cui quelli che venivano dietro, non sapevano il perché. Parve che diffondessero uno sgomento, un terrore, come se un esercito terribile fosse piombato su la folla inerme...


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820, al tempo della Rivoluzione e delle Vendite carbonare; il tutto vissuto attraverso le avventure del protagonista, Tullio Spada. 
L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930 ed è arricchito dai disegni di Niccolò Pizzorno.
Pagine 342 – Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.

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lunedì 30 giugno 2025

Luigi Natoli: l'inizio di Fra' Diego La Matina, romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1640.

C’era spettacolo del Sant’Offizio quella mattina del 9 settembre 1640. Già il giorno innanzi, come era prescritto, c’era stata la processione, che partendo dallo Steri, palazzo del Sant’Offizio dell’Inquisizione, si era recata nel piano della Cattedrale, dove era stato costruito il gran palco per l’Atto di Fede; e aveva posto la Croce del Santo Tribunale sull’altare, fra torce rimaste accese tutta la notte; e frati, preti, familiari del Sant’Offizio vi avevano vegghiato recitando salmi ed inni.
Lo spettacolo destava grande curiosità pel numero degli inquisiti, tre dei quali erano stati colpiti dalla più grave sentenza: erano stati cioè rilasciati al braccio secolare. Era una formula ipocrita con la quale si intendeva togliere alla Chiesa il biasimo di condannare a morte. La Chiesa non doveva e non poteva per materia di fede, uccidere; ma faceva uccidere dalla giustizia laica, alla quale consegnava i rei d’eresia e di commercio col demonio, che dovevano essere bruciati. La giustizia secolare, e cioè la curia del Capitano di città dopo la solenne lettura della sentenza del Tribunale del Sant’Offizio s’impadroniva del reo, e lo sottoponeva a un giudizio pro forma, che serviva per dimostrare che la sentenza di morte non era pronunciata dall’autorità ecclesiastica, ma da quella laica. In grazia di queste miserabili ipocrisie, poteva la potestà della Chiesa affermare che essa non condannava a morte nessuno! 
Tre, dunque, fra gli inquisiti, già si sapeva, sarebbero stati rilasciati al Capitano di città. Tre roghi si sarebbero accesi nel piano di Sant’Erasmo: spettacolo triplice in onore della santa religione. I nomi erano noti: uno si chiamava, da cristiano Gabriele Tudesco, da moro musulmano Amet. Era un mal battezzato, ritornato alla sua prima fede. Condannato una prima volta per questo suo ritorno alla fede dei padri, aveva confessato il suo errore, abiurato, ed era stato assolto e mandato in galera a remare per cinque anni. Ma era ricaduto nel fallo; e sottoposto nuovamente a giudizio, aveva dichiarato che maomettano era nato e maomettano voleva morire: colpa gravissima, che meritava il rogo.
Il secondo era un frate agostiniano, calabrese: fra Carlo Tavalora, che si era spacciato per Messia; aveva fondato una setta di Messiani e diffondeva una morale nuova, una teoria nuova, una politica nuova e nuovi riti, che avevan trovato qualche seguace. Arrestato nel 1635 era stato per cinque anni nelle carceri della inquisizione sottoposto a dispute e a torture, ostinato nella sua riforma religiosa; finalmente il pio tribunale lo aveva condannato.
Il terzo che destava maggior interesse per la sua notorietà, era un francese, guantaio, che si chiamava Giovan Battista Verron. Era venuto di Francia giovane, non ancor ventenne; aveva aperto bottega nella strada dei Guantai, e aveva fatto fortuna; e però aveva suscitato gelosie e invidie. Qualcuno notò che Verron non andava a messa. Francese e non frequentatore della chiesa, bastava per far nascere sospetti. Un giorno fu sorpreso mentre leggeva la Bibbia; quella Bibbia era tradotta in francese: Giambattista Verron dunque era ugonotto. 
I birri del Sant’Offizio lo arrestarono.
Verron era giovane e amava la vita. Morire a venti anni, quando il cuore ferve di sogni? Per una messa? Rinunciare alla gioia di amare, alla gioia di vivere? Nelle carceri del Sant’Offizio, tormentato da teologi di ogni specie, sopraffatto di argomentazioni e di minacce, Verron sentì vacillare la saldezza del suo carattere. Si confessò convinto della verità cattolica. Così nello spettacolo o atto-di-fede nel 1630 egli fu pubblicamente assolto dall’eresia, e condannato a un anno di carcere. Quando ne uscì, credette di poter vivere in pace con il suo lavoro; e di poter seguire il suo sogno d’amore.
Vano sogno! Una mattina, era la quaresima del 1640 appunto, in un impeto di furore, tolse via dalla bottega l’immagine del Cristo, e da un ripostiglio segreto del suo armadio, prese una piccola Bibbia. I suoi nemici lo spiavano. Quando si assicurarono che egli non andava più a messa, non si confessava, non compiva nessuno degli atti prescritti dalla religione, lo accusarono nuovamente all’Inquisizione, che gli teneva gli occhi addosso. Gli occhi delle spie. Verron fu arrestato una seconda volta e chiuso nelle segrete del Sant’Offizio; ma questa volta per non uscirne più.
Sottoposto ad interrogatori, discussioni e minacce, rispose che la sua coscienza gli aveva fatto giudicare più pura, più cristiana, più conforme allo spirito del Vangelo, la sua fede di ugonotto; che era ritornato a essa e che sarebbe morto, prima di rinunziarvi. Colpa grande! dopo sette mesi di torture il Sant’Offizio lo condannò come eretico formale, ostinato, bestemmiatore.
E quella mattina del 9 settembre 1640, egli insaccato nell’ “abitello” nero dipinto a fiamme, fu condotto con gli altri due, per sentirsi leggere in pubblico, le grandi colpe commesse, e la sentenza che lo rilasciava al braccio secolare. Dopo lo spettacolo egli fu dunque consegnato al Capitano di città, al quale spettava di diritto di far seguire la sentenza. Di solito l’arsione avveniva il domani; perché la corte capitanale doveva imbastire quel simulacro di giudizio, per pronunciare la condanna al rogo; ma il domani era domenica e nei giorni festivi non si eseguivano sentenze. Non in die festo. Verron ebbe dunque prolungata l’agonia ancora un giorno: ma la mattina del lunedì, sollecitato a convertirsi, a salvare l’anima, egli disse che voleva confidare cose di grande importanza, soltanto a un frate agostiniano...

Luigi Natoli: Fra Diego La Matina. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1640. L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1924. 
Pagine 536 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo, consegna a mezzo corriere o raccomandata postale in tutta Italia)
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mercoledì 18 giugno 2025

Luigi Natoli: l'inizio di Squarcialupo, romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500

Buio profondo nella strada. E non un’anima viva: solo due cani che si udivano ringhiare invisibili, sotto la pioggia minuta e uguale che cadeva silenziosamente dalle prime ore della sera. Una porta si schiuse lentamente, lasciando travedere una luce rossiccia, e una testa si sporse fuori: guardò a destra, guardò a sinistra, poi in alto, dove l’alta torre di un vecchio palazzo si perdeva nelle tenebre: infine rientrò e richiuse.
Dentro v’erano cinque uomini, seduti intorno a una tavola, illuminata dalla luce rossastra oscillante di una lucerna di terracotta. Un boccale stava fra loro. Un’altra tavola, tra panche e scranne si trovava alla parete opposta, in quella stanza, non troppo grande, fuliginosa, che sapeva di vino e di unto. In fondo si vedevano incerti nella penombra, un banco con altri boccali, e dietro il banco due botti. Era una taverna.
A quell’ora, essendo già suonata da un pezzo l’ora del coprifuoco, nessuno avrebbe dovuto trovarcisi: ma quei cinque avventori avevano qualche cosa di singolare che aveva obbligato il tavernaio a lasciarli stare nella taverna, contentandosi di chiudere la porta.
Quei cinque uomini erano armati di spada e pugnali; ma più delle armi che tutti per altro portavano, incuteva soggezione l’aspetto. Erano bravacci, avanzi forse di quelle soldatesche spagnole che pochi anni innanzi, ritornati dall’Africa, avevano suscitato in Palermo una sommossa con tante uccisioni che la fecero dire un piccolo Vespro.
Avevano certamente qualche ragione per trattenersi in quella taverna oltre l’ora consentita dai bandi: e il tavernaio non aveva osato mandarli via, oltre che per non subire prepotenze, anche perché di convegni simili questo non era il primo.
Quello che si era affacciato, disse con lieve accento straniero:
- Piove ancora.
- Tanto meglio! – disse uno di quelli che stavano seduti.
- Che s’aspetta? – domandò un altro.
- Non è l’ora. Non bisogna aver fretta, più tardi è, meglio è!...
- Gli è che mi annoio...
- E se t’annoi, vattene!
- Proprio?
Il dialogo morì a questo punto. Il bravaccio che s’annoiava sbadigliò, stirò le braccia, poi le intrecciò sulla tavola e vi appoggiò il capo. Per un poco il silenzio gravò nella stanza: ma un colpo picchiato alla porta provocò un movimento, come se fosse stato un richiamo.
Dalla porta aperta, si affacciò un uomo avvolto in un mantello e disse a uno di quegli uomini.
- Andiamo, Egnacio.
Egnacio, che pareva il capo della comitiva, diede una scossa a quello che s’era addormentato.
- Su, poltrone!...
Uscirono a uno a uno, cautamente, senza far rumore: e s’avviarono, un dietro l’altro, in silenzio, rasente i muri, dietro l’uomo che era andato a chiamarli. 
La città era deserta: le case immerse nel sonno. Per quanto essi si studiassero di non far rumore, i passi risonavano nel silenzio notturno. Percorrendo vicoli tortuosi, che probabilmente datavano dal tempo dei musulmani, sbucarono nella via Marmorea, che così ufficialmente si chiamava allora il vecchio Cassaro: e imboccarono la strada di Sant’Antonio, che montava in su, verso la vecchia piazzetta di San Teodoro, chiusa dall’alta muraglia che dominava le bassure del quartiere degli Amalfitani, dove sorgeva il mercato, e scorreva ancora un fiumicello.
La comitiva si fermò sotto l’arco detto delle Vergini. L’uomo che ve l’aveva condotta, disse a Egnacio.
- Io ti aspetto a casa dove sai. Bada bene a non fallare il colpo.
- Non abbiate timore, caballero.
- E soprattutto non bisogna torcerle un solo capello.
- Ma bisogna pure impedirle di gridare!
- Troverai il modo di impedirlo, senza farle male... E ricordati di quel che ti ho detto...
Egnacio fece un gesto di promessa e di assicurazione. L’uomo che comandava con tanta autorità, e che ai modi e al portamento si vedeva bene essere un gentiluomo, si allontanò per la strada che correva lungo le mura, e che prendeva nome di Ruga del Celso; nome rimasto a una parte di essa.
Egnacio si avvicinò ai compagni, coi quali confabulò un poco, sotto voce, guardando ogni tanto il muro di cinta del giardino del monastero. La pioggia continuava, lenta, minuta, implacabile. Essi avevano i mantelli fradici, e i piedi guazzanti nella mota.
Il Ragno, che doveva essere il soprannome alla lunghezza e alla esilità delle sue gambe, s’avvicinò al muro, tastandolo, finché trovò il punto buono.
Allora stese le mani dentro certi crepacci, e con facilità straordinaria si arrampicò su pel muro, non ostante che la pioggia lo rendesse lubrico, e che più d’una volta il piede scivolasse. Gli altri seguivano con gli occhi l’ascesa della sua massa bruna e informe, che appena si scorgeva sul grigiastro del muro.
Finalmente giunse a mettersi a cavallo.
- Ci sei? – domandò Egnacio.
- Sì: butta.
Egnacio si tolse di sotto il mantello una cordicella arrotolata, al cui capo era legato un pezzo di legno: e preso lo slancio la lanciò in alto. Il Ragno la prese in petto, e cominciò a tirare la cordicella all’altro capo della quale era assicurata una scala di seta, munita di due forti uncini.
Dopo qualche minuto il Ragno disse:
- Potete salire.
Egnacio fece salire a uno alla volta i suoi compagni; ultimo si arrampicò lui. Quando tutti si trovarono a cavalcioni sull’orlo del muro, il Ragno girò la scala e la voltò dalla parte del giardino. Discesero. La terra molle spegneva il rumore dei passi; e non si udiva altro rumore che quello dell’acqua che cadeva sul laghetto che era in mezzo al giardino. V’era anticamente una sorgente d’acqua minerale che aveva virtù medicamentose, per cui i musulmani l’avevano chiamata  fonte della salute. “As Safa”. E vi avevano costruito un ospizio. I normanni vi eressero chiesette, un ospedale, forse un macello: poi vi sorse un monastero, e la fonte restò nella clausura. L’acqua perdette forse la sua virtù, ma continuò a scaturire: e le monache ne fecero un laghetto, sul quale una barchetta serviva a sollazzarle.
Egnacio, seguito dai suoi compagni costeggiò il laghetto: entrò in un viale che pareva una galleria aperta nel fogliame, e giunse a un portico. Allora si trasse di sotto una lanterna cieca, e illuminò le pareti del portico, dove scoprì una porticina.
- È questa – disse: – a te Succhiello.
Succhiello era il nomignolo affibbiato a uno di quei malandrini, per la sua abilità a scassinare le porte. Egli prese la lanterna, esaminò il buco della serratura; poi cavato un ferro dalla borsa che gli pendeva al fianco, cominciò a girarlo nel buco e a far leva, finché sentì lo scatto della molla e la porta cedette, e inghiottì nelle tenebre i cinque malandrini.

Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli. Ventisei romanzi, ognuno con un inizio diverso.
Squarcialupo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500. Pubblicato unicamente in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924, raccolto per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 684 - Prezzo di copertina € 24,00

Il volume è disponibile:
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo poste o corriere, consegna gratuita a Palermo)
Su Amazon Prime e tutti gli store online.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte Feltrinelli), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Spazio cultura libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102). 

lunedì 16 giugno 2025

Luigi Natoli e l'inizio dei suoi romanzi: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico siciliano.

 
Un colpo di fucile rimbombò nella notte; e nel tempo stesso una voce gridò: 
- All’armi! 
Quasi subito s’udì un gran rumore di gente ridestatasi e impaurita; e per la cortina occidentale del castello, fra’ due torrioni, si videro correre, al lume di lanterne oscillanti, nere ombre gridavano: 
- Che cos’è?....
Al corruschìo delle armi si indovinava che erano soldati. 
Si udì uno stridere di ferri, uno sbattere di porte e di cancelli; alcune finestre del mastio si illuminarono; ben presto le due torri e la cortina si animarono di soldati e di aguzzini o guardiaciurme, che agitavano fiaccole e lanterne: 
- Che cos’è?...
La sentinella che aveva sparato da una delle torri, gridava: 
- Giù! Bisogna andar giù nel fosso... Dev’essere lì...
- Chi?
- Un prigioniero. È caduto nel fosso. 
Un uomo piccolo, magro, gridio, in farsetto, senza parrucca, con una spada in pugno, venne anche lui frettolosamente, gridando: 
- Che cos’è stato? che prigioniero?
Era l’illustrissimo signor tenente Gandini comandante del presidio della fortezza di S. Leo, svegliato nel suo più bel sonno da quel colpo di fucile impreveduto e inesplicabile. 
- È scappato un prigioniero, illustrissimo...
- Un prigioniero? Scappato? E l’avete lasciato scappare, animali! Salvando il battesimo... Vi farò impiccare...
- Illustrissimo, non è scappato: è precipitato giù nel fosso; deve essersi sfracellato!...
Intanto si era aperta la saracinesca e la porta del castello, e abbassato il ponte; quattro soldati con la baionetta inastata e alcuni guardiaciurma con fiaccole, scendevano nel fosso. Di su, altri sporgevan fuori dalle feritoie altre fiaccole e lanterne; e la scena si illuminava fantasticamente qua e là di luce rossiccia e fumosa. 
Il tenente Gaudini, arrampicato sul parapetto, allungando il capo, gridava: 
- Fa’ presto sergente! Oh che avete le gambe di legno?
La sentinella che aveva sparato, alla sua volta, gridava per guidare i cercatori: 
- Da questa parte... dev’essere caduto da questa parte!... l’ho veduto precipitare io!...
I soldati e i guardaciurma seguivano le indicazioni, balzellando per la costa sdrucciolevole del fossato, e sorreggendosi sui fucili e sui bastoni. E intanto dal borgo, destati da quella fucilata, stupiti da quel trascorrere di lanterne e di torce a vento nell’ombra notturna, accorrevano i terrazzani, domandandosi che cosa fosse accaduto. Incendio non era; salvo il fumo delle torce, non v’era altro segno di arsione; assalti impensati di nemici, non era da supporne. 
Ancora i repubblicani francesi non osavano scendere dalle Alpi; e gli stati di Sua santità erano tranquilli. Né si poteva pensare a ribellioni. Se nelle grandi città, per esempio a Roma qualche anno innanzi, o a Bologna, v’erano degli innovatori, infatuati di giacobinismo, (pochi, per fortuna, della Santa Sede e della religione!) come poteva supporsi che ve ne fossero in San Leo, in quel piccolo borgo, appollaiato sull’ardua rocca di Montefeltro, sotto la minaccia della formidabile fortezza?
Ma ben presto la verità corse di bocca in bocca. Un prigioniero aveva tentato di fuggire. Come, non si sapeva. La sentinella che passeggiava nella torre di tramontana, aveva veduto un’ombra attraversare la corte, salire e scavalcare la cortina, calarsi lungo il muro. Le aveva gridato l’alto, ma l’ombra si era affrettata a discendere, come un gatto; e allora la sentinella aveva fatto fuoco. L’ombra era precipitata nel fosso. Era evidente che doveva essere un prigioniero. Il muro era alto e il corpo del prigioniero aveva fatto un tonfo. Era vivo? Morto?
I terrazzani commentando il caso inaudito salivan per la china sparsa di cespugli, che separa il borgo dalla fortezza; si distendevano sul ciglio del fosso, guardando i soldati che vi erano scesi, e che tendevan alte le fiaccole, per illuminar più lontano che fosse possibile. 
A un tratto una voce gridò: 
- Eccolo! Eccolo!...
Il comandante con un gran sospiro di soddisfazione, gridò: 
- C’è dunque?
- Signor sì, illustrissimo!...
- Sia lodato Dio! chi è? Guardate chi è il malandrino?...
Al dubbio lume delle torce si vedeva tra i sassi limacciosi raggomitolato e immobile un corpo umano, del quale non si scorgeva il capo, nascosto com’era fra le gambe. 
I soldati gli furono addosso; un di loro, chinatosi, gli sollevò il capo e gridò con stupore:
- È l’eretico...
- L’eretico?
La parola risonò per tutte le bocche con lo stesso stupore. 
- È morto? – gridò il tenente Gaudini con sdegno e paura. 
- Dagli col calcio del fucile! 
- Il bestione è svenuto!...
- Fagli un salasso con la bajonetta: gli farà bene...
- Adagio... Mi pare abbia una gamba rotta!...
- No, un braccio!
- Un braccio e una gamba!...
- Ma guarda! Il diavolo suo compare l’ha dunque abbandonato?...
Un soldato rimontò il fosso per andare a prendere una scala; intanto che gli altri continuavano a vociare fra loro e coi terrazzani, che dal ciglio del fosso domandavano:
- Rinviene?
- Sì...
- No...
- Ma sì, apre gli occhi!... Domandagli come ha fatto...
- Che cosa vuoi che risponda!... Gli è tutto pesto!...
Il caduto aveva difatti aperto gli occhi con una espressione di intontimento, guadando intorno i soldati, le fiaccole, i fucili, come se non capisse nulla: ma a poco a poco la coscienza cominciò a ritornargli, il suo sguardo, diventando più intelligente, si incupiva, prendeva una espressione di collera. 
Tentò un movimento, ma un dolore acuto gli strappò dalla bocca un grido angoscioso...

Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli: 26 romanzi storici, ognuno con un inizio diverso.
Cagliostro e le sue avventure: il romanzo-diario che ha come protagonista Giuseppe Balsamo, passato alla storia come Il conte di Cagliostro. 
L'opera è la trascrizione dell'unico romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
Pagine 884 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
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