L’inverno di quell’anno si annunciava triste e minaccioso; cattivi raccolti, scarse importazioni, commerci ristagnati, miseria e desolazione dovunque. Dalle provincie accorreva alla capitale una folla di uomini e donne, di vecchi e di fanciulli, attirati dal miraggio di una ricchezza che alle loro menti pareva disposta perchè tutti vi attingessero; e dalla fama dei provvedimenti ai quali il Senato ricorreva, con una facilità che poteva creare l’illusione di uno stato finanziario floridissimo, e che invece trascinava l’amministrazione municipale al fallimento.
La nobiltà elegante, frivola, spendereccia, spensierata, alla quale bastava e soverchiava quel che dai feudi, accumulati in poter suo, proveniva ogni anno sotto vari titoli; che non visitava mai i proprii feudi, non curava di migliorare l’agricoltura; e ignorava che cosa fosse la miseria; questa nobiltà vedeva con dispetto quell’agglomerarsi di affamati e seminudi, dagli aspetti torvi e macilenti; e non trovava altro rimedio che incitare il governo a ricacciarli via nelle province, verso la fame e la morte.
Ne derivavano furti e depredazioni, talvolta omicidi, e conseguenza inevitabile, il gittarsi alla campagna, per sfuggire alla polizia, aumentando il numero degli sciagurati che, più spesso radunati in bande, rendevano mal sicure le strade maestre e le campagne.
Le condizioni di viabilità, la polizia imperfetta, agevolavano le imprese brigantesche. Varî luoghi, dove la facilità delle sorprese assicurava l’esito, avevano acquistato fosca rinomanza, e non vi si passava senza trepidazione.
Tutt’ora rimangono qua e là, in alcune contrade, nomi paurosi, e nel linguaggio popolare frasi che ricordano le grassazioni frequenti e abituali, di cui quei luoghi erano il teatro.
Uno di questi era noto col nome di Malpasso. Non era molto lontano dalla città, e forse non sarebbe stato difficile a una polizia bene ordinata di vigilarlo. Tuttavia le rapine, le grassazioni a danno dei vetturali e dei carrettieri o della corriera postale vi erano continue e audaci. La campagna vi offriva tali nascondigli, che, compiuto il colpo, le bande vi si potevano dileguare senza esser vedute.
V’era una piccola osteria; almeno tale sembrava dalla frasca di alloro che vi sporgeva dallo stipite della porta sulla strada. In verità era una meschina casetta di pietre e fango, senza ammattonato; due stanze, nella prima delle quali era una tavola sudicia e barcollante, e alcune panche di legno non meno sudice e malferme, un piccolo banco e una botte; nell’altra stanza, dove non a tutti era concesso di entrare, si apriva un’altra porta che dava nella campagna.
I carrettieri, i “canceddi”, i corrieri, si fermavano un istante, sulla porta, a bere un bicchier di vino, per ristorarsi; scorgevano talvolta nell’interno delle facce torbide e spaventevoli, e un luccicar di canne di fucili e di tromboni; e allora si raccomandavano ai santi e alle anime del purgatorio, e si affrettavano a partire. L’oste aveva un viso doppio e traditore: pareva a prima vista un brav’uomo contento e buon amico di tutti; ma aveva sotto quella maschera un sogghigno malvagio e poco rassicurante. Egli era per la sua sicurezza la spia, il manutengolo, il provveditore delle bande brigantesche, pur fingendo di essere nel tempo stesso la spia della giustizia, pur troppo continuamente ingannata dalle sue false indicazioni
Da parecchi giorni era piovuto; e le strade eran così fangose, che le ruote dei carri vi affondavano e vi aprivano dei solchi che si sovrapponevano o si intersecavano e rendevano difficile e faticoso il cammino. Ma qualche giorno prima della festa di Natale il tempo s’era rasserenato, e un bel sole ristoratore splendeva nell’azzurro del cielo. Lunghe “retini” di muli e carri, pieni di agnelli, di maiali, di caci, di tutto ciò che la provincia inviava alla voracità cittadinesca, e che i feudi mandavano ai signori, percorrevano le strade. Chi per sue faccende si trovava lontano dalla capitale, approfittando del bel tempo, si affrettava a tornare: cosicchè non era infrequente incontrare una lettiga, dondolantesi alla cadenza delle sonagliere, che trasportava qualche signore o qualche procuratore.
I “borgesi” viaggiavano a cavallo. Raramente s’incontrava la compagnia dei cavalleggeri, addetta alla sicurezza delle strade e delle campagne. Essa accorreva, quando accorreva, dopo qualche grande e audace aggressione.
L’antivigilia del Natale due cavalli fermatisi dinanzi all’osteria di Malpasso fecero accorrere l’oste premuroso. Due giovani cavalieri ne smontarono, con le carabine in mano. Uno di essi, gittando le redini nelle mani dell’altro, disse all’oste:
- Avete da mangiare?
- Eccellenza, – rispose l’oste – che cosa vuole che una povera bettola di campagna abbia? Un pezzo di formaggio e del pane casalingo... Non sono cose per...
- Sta bene. Basta per togliere la fame...
Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo borbonica del 1792. L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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