Zi’ Francesco era uno di quegli uomini che nel quartiere dell’Albergaria godevano riputazione di coraggio e di valore.
Da questa specie di uomini, per degenerazione lenta e profonda nacque la mafia odierna, che è sopraffazione, ricatto e malandrinaggio. In quei tempi non si dicevano mafiosi, vocabolo nato e adottato in tempi più vicini, come assicurano gli studiosi. Si dicevano “cristiani”; cioè uomini nel vero senso della parola, uomini di fegato e di silenzio.
Il “cristiano” portava in una tasca il rosario, nell’altra il coltello; riconosceva e rispettava le classi sociali più elevate; aveva pei “galantuomini” – cioè per i patrizi – e pei “signori” – cioè per la borghesia – una vera sottomissione, negli atti e nelle parole, ma niente servile, la quale si tramutava poi in una tacita protezione che egli estendeva sulle loro persone e sui loro averi; e nessuno o ladro o malvivente osava commettere un delitto contro coloro che si sapevano protetti da qualche “cristiano”.
I maggiori, gli arcifanfani, diventavano capi del popolo nelle sommosse, esercitavano ufficio di arbitri e di pacieri tra il loro ceto, componendo questioni, risolvendo dubbi, e i loro responsi erano ascoltati e ubbiditi con un rispetto maggiore di quello che si rendeva ai precetti della religione e della legge.
Zi’ Francesco era uno di questi “cristiani” maggiori; e nell’Albergheria godeva di una grande autorità. Egli poteva lasciar andare le sue donne, dovunque; poteva lasciare aperta la sua casa, era sicuro che nessuno avrebbe osato commettere non diciamo una violenza, ma anche la più lieve scortesia. Una taverna all’angolo della discesa del Banditore era il suo ufficio, il suo confessionile, il suo tribunale. La sera, dopo il lavoro, vi si recava; sedeva a una tavola, e riceveva i suoi amici; ascoltava la cronaca del quartiere, le lagnanze di questo o di quello; dava giudizi. Qualche volta, in una stanza appartata, due uomini, armati di coltello di uguale misura, “la paranza”, dinanzi a testimoni e allo zi’ Francesco, si battevano per definire una questione che non si era potuta risolvere amichevolmente. Spesso, nel cuor della notte, approfittando dell’oscurità, un cadavere o un moribondo era depositato dietro i gradini di una chiesa, o in un canto di strada, lontano; e il mistero avvolgeva il delitto.
L’Albergaria era il quartiere che accoglieva gli uomini più maneschi e più rissosi; espertissimi nella scherma di coltello, nella quale si esercitavano secondo le norme di una vera e propria arte; e ubbidientissimi a un certo lor codice di cavalleria, che non compativa la prepotenza sopra i deboli e gli inermi, il delitto a tradimento o a sorpresa, lo spionaggio, l’intromissione della giustizia. Uomini nei quali il sentimento dell’onore e del valore individuale era certo esagerato e anche in parte fuorviato da pregiudizi sociali; ma nei quali era pure in fondo una grande dirittura, e una generosità a volte anche magnanima. Fra loro si professavano scambievolmente un grande rispetto. Non riconoscevan gradi, nè conferivano comandi; ma sentivano una ammirazione più rispettosa verso coloro che più si erano segnalati per atti di valore e per grandezza d’animo, e mostravan verso di loro una sottomissione, che non aveva però nulla di servile o di viltà. Era il tacito omaggio professato dalla forza all’eroismo; così come noi lo professiamo verso i grandi poeti e i grandi artisti, e in generale verso i geni.
Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '700.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
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