lunedì 25 gennaio 2021

Luigi Natoli: Il ritorno di Pirruccio. Tratto da: Il tesoro dei Ventimiglia. (Latini e Catalani vol. 2)

 

Eran passati otto anni da quando aveva lasciato Palermo. Otto anni! Ora vi ritornava solo, come n’era partito, e con in fondo al cuore la mestizia del passato, non spenta dagli anni, ma divenuta come una patina distesa sul suo spirito. E riandando indietro di immagini in immagini come i ricordi gliele suscitavano, rivedeva i suoi amici. Erano vivi? Dov’erano? Che facevano? Erano felici? Mastro Bertuchello, Manetto, messer Puccio e Lucia e Giuditta, e nonna Berta... Rivedeva tutti con quel desiderio pieno di malinconia e di rimpianti, che le persone e le cose, a cui si è affezionati e da cui si è separati, suscitano nell’anima.
Egli era arrivato quel pomeriggio di luglio, era andato alla taverna del “Moro della Testaspaccata”, aveva affidato a Simone il cavallo e le bisacce, dopo essersi riposato un poco, prese alcune informazioni, era andato alla strada dei Balestrieri, senza veder nessuno degli amici e dei conoscenti d’una volta. Attraversando le strade della città aveva veduto qua e là le vestigia della strage fatta dalla pestilenza recente. La vita risorgente, sebbene avesse ripreso il suo ritmo, e con maggior celerità non aveva cancellato le orme della morte. V’erano ancora, e quante! Case, le porte delle quali segnate con una croce indicavano che ivi era morta di peste qualche persona, forse più di una, forse tutta una famiglia, spazzata via come le festuche da un colpo di vento. E sui muri, accanto alle porte tracce di fumo; forse dei bruciamenti delle masserizie. A ogni passo donne con le bianche bende vedovili, uomini col cappuccio nero, figlioli abbrunati; e volti emaciati da convalescenze lunghe e difficili, che contrastavano con quelli sorridenti dalla soddisfazione egoistica di non essere stati colpiti dal morbo.
La città per altro non appariva mutata per nulla. Soltanto era più pulita, perché il magistrato del comune, sotto il pungiglione della paura, aveva curato che non s’accumulassero immondizie e carogne sui canti delle strade; e aveva promulgato bandi severissimi contro i disubbidienti, temendo coi calori estivi un ritorno della pestilenza.
Attraversando il vicolo dei Mori e il tratto della rua Marmorea, non aveva incontrato nessun conoscente; aveva riveduto botteghe a lui note, ma dietro i banchi di molte aveva veduto altre facce nuove. Nessuno aveva posto mente a lui: segno che nessuno l’aveva riconosciuto. Dopo otto anni era come se fosse arrivato in una città straniera: come quando arrivò a Tebe di Negroponte, che era la capitale dei ducati d’Atene e Neopatria.
Ve lo aveva mandato il duca Giovanni, che, dopo la cacciata dei Palizzi, sapute le sventure che lo avevano colpito aveva preso Pirruccio ai suoi servizi, come valoroso e capace uomo d’armi, e come persona da fidarsene. E vi aveva trascorso otto anni, guerreggiando ora contro i Greci, ora contro i pirati turchi, che tentavano scorrerie negli stati del duca, ora contro bande di Bulgari, che spingevano a gualdane da predoni. Ma spesso, invece che coi nemici doveva contrastare coi “vigeri” ossia coi governatori delle varie terre dei ducati: Catalani i più, avari e disonesti; qualcuno dei quali egli dovette spesso persuadere più colla spada alla mano, che con buone ragioni, a fare il dover suo e lasciarlo fare agli altri.
In quegli otto anni di vita aspra e dura, il suo volto si era fatto più maschio, più vigoroso; come intagliato da un rude scalpello in un pezzo di granito. Una ruga profonda si apriva diritta fra le sopracciglia, come se un pensiero inesistente le contraesse; e gli occhi si erano alquanto incupiti, o lampeggiavano una luce fredda come i riflessi di una lama. Ma spesso la nostalgia della patria lontana addolciva quello sguardo e spianava la ruga; e la mestizia desiderosa gli inteneriva il cuore. Quelle colline calcaree, quegli uliveti, quelle sponde di fiumicelli fioriti di oleandri e ginestre, sotto il cielo turchino, i templi antichi che il sole rivestiva di luce, i silenzi pieni di memorie, tutto gli ricordava la sua Sicilia. Quanto c’era da passare per giungervi!...

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia è il secondo volume del romanzo Latini e Catalani (Mastro Bertuchello e Il Tesoro dei Ventimiglia), grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del regno d’Aragona, del conte di Geraci Francesco Ventimiglia e dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, sullo sfondo della guerra fratricida fra Latini e Catalani. I due volumi sono la trascrizione delle opere originali pubblicate con la casa editrice La Gutemberg rispettivamente negli anni 1925 e 1926.
Mastro Bertuchello – Pagine 575 – Prezzo di copertina € 22,00
Il Tesoro dei Ventimiglia – Pagine 525 – Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Spedizione in tutta Italia a mezzo corriere. Puoi ordinare inviando una mail a ibuonicugini@libero.it oppure un messaggio whatsapp al 3894697296)
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