Capitolo I.
Un ratto
I.
Buio profondo nella
strada. E non un'anima viva: solo due cani che si udivano ringhiare invisibili,
sotto la pioggia minuta e uguale che cadeva silenziosamente dalle prime ore
della sera. Una porta si schiuse lentamente, lasciando travedere una luce
rossiccia, e una testa si sporse fuori: guardò a destra, guardò a sinistra, poi
in alto, dove l'alta torre di un vecchio palazzo si perdeva nelle tenebre:
infine rientrò e richiuse.
Dentro v'erano cinque
uomini, seduti intorno a una tavola, illuminata dalla luce rossastra oscillante
di una lucerna di terra cotta. Un boccale stava fra loro. Un'altra tavola, tra
panche e scranne si trovava alla parete opposta, in quella stanza, non troppo
grande, fuliginosa, che sapeva di vino e di unto. In fondo si vedevano incerti
nella penombra, un banco con altri boccali, e dietro il banco due botti. Era
una taverna.
A quell'ora, essendo già
suonata da un pezzo l'ora del coprifuoco, nessuno avrebbe dovuto trovarcisi: ma
quei cinque avventori avevano qualche cosa di singolare che aveva obbligato il
tavernaio a lasciarli stare nella taverna, contentandosi di chiudere la porta.
Quei cinque uomini erano
armati di spada e pugnali; ma più delle armi che tutti per altro portavano,
incuteva soggezione l'aspetto. Erano bravacci, avanzi forse di quelle
soldatesche spagnole che pochi anni innanzi, ritornati dall'Africa, avevano
suscitato in Palermo una sommossa con tante uccisioni che la fecero dire un
piccolo Vespro.
Avevano certamente qualche
ragione per trattenersi in quella taverna oltre l’ora consentita dai bandi: e
il tavernaio non aveva osato mandarli via, oltre che per non subire prepotenze,
anche perché di convegni simili questo non era il primo...
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