Buio profondo nella strada. E non un’anima viva: solo due cani che si udivano ringhiare invisibili, sotto la pioggia minuta e uguale che cadeva silenziosamente dalle prime ore della sera. Una porta si schiuse lentamente, lasciando travedere una luce rossiccia, e una testa si sporse fuori: guardò a destra, guardò a sinistra, poi in alto, dove l’alta torre di un vecchio palazzo si perdeva nelle tenebre: infine rientrò e richiuse.
Dentro v’erano cinque uomini, seduti intorno a una tavola, illuminata dalla luce rossastra oscillante di una lucerna di terracotta. Un boccale stava fra loro. Un’altra tavola, tra panche e scranne si trovava alla parete opposta, in quella stanza, non troppo grande, fuliginosa, che sapeva di vino e di unto. In fondo si vedevano incerti nella penombra, un banco con altri boccali, e dietro il banco due botti. Era una taverna.
A quell’ora, essendo già suonata da un pezzo l’ora del coprifuoco, nessuno avrebbe dovuto trovarcisi: ma quei cinque avventori avevano qualche cosa di singolare che aveva obbligato il tavernaio a lasciarli stare nella taverna, contentandosi di chiudere la porta.
Quei cinque uomini erano armati di spada e pugnali; ma più delle armi che tutti per altro portavano, incuteva soggezione l’aspetto. Erano bravacci, avanzi forse di quelle soldatesche spagnole che pochi anni innanzi, ritornati dall’Africa, avevano suscitato in Palermo una sommossa con tante uccisioni che la fecero dire un piccolo Vespro.
Avevano certamente qualche ragione per trattenersi in quella taverna oltre l’ora consentita dai bandi: e il tavernaio non aveva osato mandarli via, oltre che per non subire prepotenze, anche perché di convegni simili questo non era il primo.
Quello che si era affacciato, disse con lieve accento straniero:
- Piove ancora.
- Tanto meglio! – disse uno di quelli che stavano seduti.
- Che s’aspetta? – domandò un altro.
- Non è l’ora. Non bisogna aver fretta, più tardi è, meglio è!...
- Gli è che mi annoio...
- E se t’annoi, vattene!
- Proprio?
Il dialogo morì a questo punto. Il bravaccio che s’annoiava sbadigliò, stirò le braccia, poi le intrecciò sulla tavola e vi appoggiò il capo. Per un poco il silenzio gravò nella stanza: ma un colpo picchiato alla porta provocò un movimento, come se fosse stato un richiamo.
Dalla porta aperta, si affacciò un uomo avvolto in un mantello e disse a uno di quegli uomini.
- Andiamo, Egnacio.
Egnacio, che pareva il capo della comitiva, diede una scossa a quello che s’era addormentato.
- Su, poltrone!...
Uscirono a uno a uno, cautamente, senza far rumore: e s’avviarono, un dietro l’altro, in silenzio, rasente i muri, dietro l’uomo che era andato a chiamarli.
La città era deserta: le case immerse nel sonno. Per quanto essi si studiassero di non far rumore, i passi risonavano nel silenzio notturno. Percorrendo vicoli tortuosi, che probabilmente datavano dal tempo dei musulmani, sbucarono nella via Marmorea, che così ufficialmente si chiamava allora il vecchio Cassaro: e imboccarono la strada di Sant’Antonio, che montava in su, verso la vecchia piazzetta di San Teodoro, chiusa dall’alta muraglia che dominava le bassure del quartiere degli Amalfitani, dove sorgeva il mercato, e scorreva ancora un fiumicello.
La comitiva si fermò sotto l’arco detto delle Vergini. L’uomo che ve l’aveva condotta, disse a Egnacio.
- Io ti aspetto a casa dove sai. Bada bene a non fallare il colpo.
- Non abbiate timore, caballero.
- E soprattutto non bisogna torcerle un solo capello.
- Ma bisogna pure impedirle di gridare!
- Troverai il modo di impedirlo, senza farle male... E ricordati di quel che ti ho detto...
Egnacio fece un gesto di promessa e di assicurazione. L’uomo che comandava con tanta autorità, e che ai modi e al portamento si vedeva bene essere un gentiluomo, si allontanò per la strada che correva lungo le mura, e che prendeva nome di Ruga del Celso; nome rimasto a una parte di essa.
Egnacio si avvicinò ai compagni, coi quali confabulò un poco, sotto voce, guardando ogni tanto il muro di cinta del giardino del monastero. La pioggia continuava, lenta, minuta, implacabile. Essi avevano i mantelli fradici, e i piedi guazzanti nella mota.
Il Ragno, che doveva essere il soprannome alla lunghezza e alla esilità delle sue gambe, s’avvicinò al muro, tastandolo, finché trovò il punto buono.
Allora stese le mani dentro certi crepacci, e con facilità straordinaria si arrampicò su pel muro, non ostante che la pioggia lo rendesse lubrico, e che più d’una volta il piede scivolasse. Gli altri seguivano con gli occhi l’ascesa della sua massa bruna e informe, che appena si scorgeva sul grigiastro del muro.
Finalmente giunse a mettersi a cavallo.
- Ci sei? – domandò Egnacio.
- Sì: butta.
Egnacio si tolse di sotto il mantello una cordicella arrotolata, al cui capo era legato un pezzo di legno: e preso lo slancio la lanciò in alto. Il Ragno la prese in petto, e cominciò a tirare la cordicella all’altro capo della quale era assicurata una scala di seta, munita di due forti uncini.
Dopo qualche minuto il Ragno disse:
- Potete salire.
Egnacio fece salire a uno alla volta i suoi compagni; ultimo si arrampicò lui. Quando tutti si trovarono a cavalcioni sull’orlo del muro, il Ragno girò la scala e la voltò dalla parte del giardino. Discesero. La terra molle spegneva il rumore dei passi; e non si udiva altro rumore che quello dell’acqua che cadeva sul laghetto che era in mezzo al giardino. V’era anticamente una sorgente d’acqua minerale che aveva virtù medicamentose, per cui i musulmani l’avevano chiamata fonte della salute. “As Safa”. E vi avevano costruito un ospizio. I normanni vi eressero chiesette, un ospedale, forse un macello: poi vi sorse un monastero, e la fonte restò nella clausura. L’acqua perdette forse la sua virtù, ma continuò a scaturire: e le monache ne fecero un laghetto, sul quale una barchetta serviva a sollazzarle.
Egnacio, seguito dai suoi compagni costeggiò il laghetto: entrò in un viale che pareva una galleria aperta nel fogliame, e giunse a un portico. Allora si trasse di sotto una lanterna cieca, e illuminò le pareti del portico, dove scoprì una porticina.
- È questa – disse: – a te Succhiello.
Succhiello era il nomignolo affibbiato a uno di quei malandrini, per la sua abilità a scassinare le porte. Egli prese la lanterna, esaminò il buco della serratura; poi cavato un ferro dalla borsa che gli pendeva al fianco, cominciò a girarlo nel buco e a far leva, finché sentì lo scatto della molla e la porta cedette, e inghiottì nelle tenebre i cinque malandrini.
Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli. Ventisei romanzi, ognuno con un inizio diverso.
Squarcialupo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500. Pubblicato unicamente in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924, raccolto per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 684 - Prezzo di copertina € 24,00
Il volume è disponibile:
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo poste o corriere, consegna gratuita a Palermo)
Su Amazon Prime e tutti gli store online.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte Feltrinelli), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Spazio cultura libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102).