Serro nel profondo del cuore l’angoscia, respingo indietro le lagrime che fanno impeto agli occhi, per scrivere della mia creatura. Potrei commettere ad altri questo ufficio, ma non voglio; perché a nessun altro Egli rivelò l’anima sua, fuor che a me, che Egli amò devotamente e con orgoglio, che direi soverchio se si potesse dar misura all’amore suo filiale. Voglio scrivere io, il Suo babbo, non soltanto per dire il cuor che Egli ebbe, ma per isfogo del mio cordoglio; e perché parmi che il Suo spirito debba gioire di questa mia testimonianza di dolore e d’amore.
Il frammento di bomba che nel piccolo cimitero di Staranzano scavò una fossa alla carne giovinetta, aperse una ferita insanabile nel cuor mio. Pure, in questa ferita, come in un sacrario, vive illuminata dalla luce purissima del voluto sacrificio l’immagine del mio Clodomiro; e più, contemplandola, si inacerba il rimpianto, più ella si ingrandisce agli occhi miei: perocchè dispogliata dalle materiali contingenze della vita, l’anima Sua mi si va sempre più rivelando diritta come una lama, tesa come un arco alla sua meta, austera nel concepimento del dovere, vigile e pronta al sacrificio, come quella di un confessore della fede.
Nessuno sotto la gioconda irrequieta spensieratezza avrebbe supposto in Lui tanta gagliarda serietà di propositi e una fede così viva e operosa nei suoi ideali: chè questa fede Egli tenne dapprima chiusa nell’anima sua, col riserbo di un primo amore: né si rivelò, né si esplicò in azione, se non allo scoppio improvviso della guerra europea. Egli era a Parigi, quando gli eserciti tedeschi invasero il Belgio; e il grido della Francia non giunse invano al suo cuore.
Pochi, forse, salutarono con gioia pari alla Sua l’alba del 24 maggio! Eppure in quel primo momento gli vietarono di partire pel fronte, perché i medici militari lo giudicarono inadatto alle fatiche di guerra: Lui che la guerra già conosceva! Egli fuggì: fuggì due volte; e così gli fu concesso di raggiungere il suo reggimento. Partì negli ultimi di maggio. Da allora stette sempre in prima linea; dovrei dire anzi sempre in trincea; che soltanto pochissimi giorni la sua compagnia andò in riposo. Modesto, sobrio, primo sempre ai pericoli, allegro, affettuoso, in tutta la lunga faticosa aspra avanzata per la conquista del Col di Lana, rese importanti servizi. Cento volte sfidò la morte: di giorno e di notte, sulla neve, sotto i reticolati austriaci, dovunque i suoi superiori Lo mandavano, sicuri dell’audacia, dell’abnegazione e dell’intelligenza del “Garibaldino” – come lo chiamavano.
E non vantò mai l’opera sua; spesso lasciò ad altri il merito di Sue rapide e feconde iniziative. Inviato dal suo capitano, che lo amava, a iscriversi nel plotone allievi ufficiali, si rifiutò. Che importava un grado? Combattere bisognava; che anche da semplice soldato si poteva ben meritare dalla patria.
Non pensò mai a sé. Più di una volta, sfidando la morte, andò a raccogliere qualche compagno gravemente ferito, e se lo caricò sulle spalle, invano bersagliato dalle fucilate austriache. Gli shrapnels, le bombe, le palle austriache che Gli uccidevano i compagni al fianco, pareva rispettassero la sua balda giovinezza: Gli cadevano ai piedi senza esplodere, o Gli foravano il berretto senza colpirLo. Le valanghe precipitavano su la Sua capanna in vedetta avanzata, senza abbatterla; la neve Lo copriva durante il sonno su per la montagna, e Lo svegliava il domani ilare e svelto, fra compagni, ahimè, che non si svegliavano più!... S’era acquistata una fama di invulnerabilità, che Gli faceva sfidare la morte, sorridendo. Ma senza spavalderia. Non potei indurLo mai, nelle brevi licenze passate con me, a scrivere o a narrare episodi che Lo riguardassero: quelli che io conosco, Gli sfuggivano, quasi senza volerlo, dalla bocca, incidentalmente; e accennandovi, cercava di non lumeggiar troppo Se stesso; e qualche Suo bel tratto eroico o generoso cercava di ridurre, non tanto per modestia, quanto pel timore che potesse apparire una vanteria.
Cedette alle insistenze dei superiori, e andò al corso degli allievi ufficiali, soltanto quando si persuase che da ufficiale poteva rendersi utile. Nominato aspirante nel maggio del 1916 fu destinato al 24° che fronteggiava il nemico tra i ghiacciai del Seekofel. Vi andò preceduto dalla fama di audace e volenteroso; e la riconfermò nell’eseguire incarichi, degnamente encomiati dal Comando della Brigata. Altri avrebbe forse fatto valere le lodi per averne ricompense o avanzamenti; Egli non se ne curò. Io non ne avevo notizia che tardi, e brevemente. Non già perché Egli fosse avaro di lettere: mi scriveva anzi frequentissimamente, quasi ogni giorno: talvolta la notte dopo un’avanzata o dopo una ricognizione; chè io era in cima dei Suoi affetti. Ma appunto per questo, Egli cercava di non destare in me preoccupazioni ed ansie.
Dai Suoi superiori del 24° il mio Clodomiro fu presentato con lettere così elogiative, che dal colonnello del 225°, senza neppur provarLo, Gli fu assegnato il comando di una sezione autonoma, detta Bettica. E bastò meno di una settimana perché Egli confermasse quella fiducia, e Si acquistasse l’affetto e la stima dei superiori e dei compagni. E chi, conosciutoLo appena, non Lo amava? Chi non l’avrebbe amato?
Il 17 giugno, di mattina, condusse le reclute al poligono di tiro, per addestrarle al lancio delle bombe a mano. Erano bombe a miccia, del tipo detto Sipe. Si lanciano, accesa la miccia, a una distanza di venticinque o trenta metri: fra l’accensione e lo scoppio passan sette secondi; il loro raggio di azione si estende a venti metri. Bisogna lanciarle subito. Ma, imperizia e, più, paura tolgono a una recluta la padronanza di sé. Essa lascia cadere la bomba accesa di qua del parapetto, in mezzo ai soldati. Lo scoppio è imminente. Non v’è che un attimo. In quest’attimo è la vita o la morte di tutti. Fra il terrore degli altri, il mio Clodomiro serba lo spirito agile e sereno; vede la miccia fumante consumarsi, prevede la strage, sente che uno deve affrontare la morte per gli altri. Lui. E si slancia sulla bomba, la raccoglie, la scaglia oltre il paraschegge. Salvi? Gli altri sì! La bomba scoppia prima di cadere; una scheggia colpisce al cuore l’eroico Figlio. Una sola: e l’uccide!...
- Qui! Qui! – grida toccandosi il petto. Poi mormora: – Povero babbo! Povera mamma mia!
E le Sue labbra si chiusero per sempre sui nomi adorati: non rimpiansero in quel momento l’acerbezza del destino, la giovinezza spezzata, i sogni infranti: dolorarono del dolore altrui. L’ultimo Suo pensiero fu per lo schianto dell’anima nostra...
La morte che non aveva osato colpirLo nella tempesta dei combattimenti, quando l’ira par che abolisca ogni senso di umanità; che non Lo aveva colpito eroe della strage, con l’arme insanguinata nel pugno; volle spegnerLo in un gesto di carità sublime; volle che tanta bella e fiorente giovinezza fosse irradiata della luce purissima del sacrificio, consapevolmente, volontariamente affrontato, sofferto per la salvezza degli altri!...
Luigi Natoli: Ricordi di Clodomiro, mio figlio.
L'opera è la fedele trascrizione del libretto originale, pubblicato dall'autore nel 1920 in memoria del figlio Clodomiro, morto eroicamente durante la prima guerra mondiale il 17 giugno 1917.
Pagine 74 - Prezzo di copertina € 10,00
Il libretto è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
https://www.ibuonicuginieditori.it/shop-online?ecmAdv=true&page=1&search=clodomiro
Su Amazon Prime, Ibs, Feltrinelli e tutti gli store di vendita online.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102).