Correva allora il febbraro 1647 ed in Palermo scorgevasi una calca, un’affluenza insolita. Le granaglie venivano meno anche in questa città, ma non osando il comune far ciò che aveva fatto quello di Messina, soffriva una perdita di cento scudi al giorno.
E non ciò solo: numerose turbe venivano dall’interno dell’isola, dove il pane o non si vedeva, o si comprava caro, per abitare dove il pane si dava a buon mercato. Intere famiglie, lacere, smunte, trascinandosi dietro vecchi e ragazzi, erravano di notte, nell’imperversare dell’inverno, per le piazze e per le vie, senza asilo, languenti pel digiuno, rendendo funesta la città con quell’apparato di miseria. Si confidava nel futuro ricolto, ma le pioggie incessanti, infracidirono il grano nei solchi, e fu necessario seminarlo nuovamente. Ciò naturalmente diminuiva i viveri, mentre le turbe sopravvenute aumentavano il consumo.
L’ammasso di queste turbe, per così dire, stivate nella capitale, le morti che per la fame si succedevano con frequenza, aggiunsero, solita compagna della carestia, una fiera pestilenza; la quale si estese tanto, quanto maggiore era il numero degli abitanti, e s’ebbe nuovamente a vedere lo spettacolo orrendo di gente affamata, presa dalla peste, morire sul lastrico priva di aiuto.
Ad ogni passo porte chiuse, e sulla soglia stesi cadaveri puzzolenti, o ammalati, che poco aveano di vita, e dovevano contemplare quello sconcio spettacolo; qua e là uomini e donne difformati dalla fame o dal contagio contorcersi tra gli spasimi dell’agonia senza un gramo di assistenza; altri vagavano in mezzo a tanto orrore, con una cera di spavento; e bambini stecchiti, macilenti spremere invano le smunte mammelle, in cerca di latte, ed agonizzare sulle braccia delle madri; ed i genitori con occhi stralunati cercare un pezzo di cuoio, un osso spolpato, schifosi animali, da porgere ai figli; altri con le unghia raschiare rabbiosamente l’erba che cresceva nelle muraglie, e rosicchiarla avidamente, e contenderla con altri ammalati, che l’avrebbero voluta per sollevare le perdute forze. Né il governo, né i ricchi pensarono di rimediare in alcun modo; essi col più perverso egoismo pensavano a loro, cui la fame nulla, il contagio pochissimo danno facea.
Solo schifosi monatti percorrevano le strade su carri carichi di morti, gettativi come legna, e bestemmiavano e trincavano, facendo un contrasto di orrore con i gemiti dei moribondi. Pochissimi, e del popolo mezzano, in quel frangente, soccorsero quanto meglio poterono, la misera plebe, e tra questi la famiglia Velasquez; e Giulio, da essa nascosto, non ebbe paura di mostrarsi pubblicamente per aiutare chi soffriva. Ci fu chi, vistolo, fece la spia, ma non parendo prudente farlo arrestare in quel punto, si aspettò che passasse il flagello, tenendolo sempre d’occhio.
Ed intanto la peste infieriva, e moltiplicandosi le vittime, per una siccità aggiuntasi agli altri mali, divenuto strabocchevole il numero, si dovette convertire, per cura di gente pietosa, qualche chiesa in ospedale; e del clero specialmente i Crociferi, molti si mossero allora per assistere chi di peste e chi di fame languiva.
Ma non bastando i rimedii umani, si corse ai soprannaturali, e, contro il parere di pochi, fra cui Padre Giovanni, che in quella pestilenza parve agli afflitti l’angelo consolatore, si trasse dal duomo, dove esisteva, una antica effigie del Crocifisso, creduta opera dell’Apostolo Nicodemo, e con grande processione si portò nella Chiesa di S. Giuseppe, di poco edificata, e vi si espose. Per più giorni di seguito fu un affluire di genti al tempio, processione di fedeli d’ogni sesso ed età, vestiti di sacco, sparsi di cenere, flagellandosi in pubblico; tralasciato ogni lavoro, ove non fosse rivolto all’estinzione del contagio, e da per tutto preghiere e processioni e penitenze, che colpivano ed esaltavano le menti commosse.
Finalmente il male cominciò a estinguersi, la pioggia invocata venne; il miracolo parve fatto, e fu una festa da non si poter narrare...
Luigi Natoli: Giulio Federici. Un episodio di Palermo nel secolo XVII.
Racconto storico.
L'opera è la fedele trascrizione del racconto originale pubblicato a Palermo nel 1877 dallo Stabilimento Tipografico diretto da P. Pensante. La prima opera dell'autore, incontrata per un fortunato caso.
Pagine 114 - Prezzo di copertina € 15,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
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